Ecumenical Prayer Cycle

domenica 13 novembre 2022

 


SCENARI

C’È POSTO PER LA PACE?

Dario Fabbri e Guido Dotti in dialogo, moderati da Costanza Spocci

Vicenza – Festival biblico – Venerdì 27 maggio 2022

Intervento di Guido Dotti

Alla luce degli eventi di questi ultimi mesi, la domanda sull’esistenza o meno di un posto per la pace nel mondo appare quanto mai peregrina: non c’è posto per la pace, né oggi né a breve-medio termine. La pace appare pura u-topia, non-luogo, realtà contraddetta a ogni istante: un sogno senza casa, senza un minimo spazio in cui dimorare.

Eppure, proprio per questo può valer la pena tornare a un testo che ha segnato una svolta decisiva nel magistero della Chiesa cattolica, la Pacem in terris, che così si concludeva: “Queste nostre parole, che abbiamo voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo. […] Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà” (§ 89).

In verità, quella frase lapidaria – “se vuoi la pace, prepara la guerra” – che ci è stata trasmessa fin da ragazzini come fosse un’eredità da accettare senza beneficio di inventario, è rimasta nel nostro patrimonio genetico individuale e collettivo, come constatiamo amaramente anche in questi giorni. Ma è significativo che già Paolo VI e poi Giovanni Paolo II, nei messaggi in occasione dell’annuale ricorrenza della “Giornata mondiale della pace”, ne abbiano ripreso più volte la prima parte per declinare in maniera opposta la seconda: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” (1972), “Se vuoi la pace, difendi la vita” (1977), “Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo” (1991), “Se vuoi la pace, vai incontro ai poveri” (1993)… Questo a ricordare come l’insistenza di papa Francesco, dai primi mesi di pontificato fino alla Fratelli tutti e agli instancabili appelli odierni in favore della pace, venga da molto lontano – dal Vangelo – e da molto in profondità, dal cuore stesso della Chiesa.


Così il paragrafo di apertura del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2021 di papa Francesco crea un collegamento esplicito tra cura e pace: “La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente”.

All’inizio della prima ondata di contagi – e di morti – causati dal Covid-19, con pochi altri avevo cercato di “disarmare” la retorica della guerra al virus con la metafora della cura: in pieno sforzo di contrasto al diffondersi della pandemia, soprattutto da parte di chi sopportava il peso maggiore della fatica e dei rischi, veniva la richiesta di pensare in termini di cura e non di guerra alle forti criticità presenti e all’incerto futuro che ci attende come società e quindi anche come chiesa.

La pandemia ci ha mostrato con ogni evidenza che non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. Ora purtroppo anche noi come molti altri popoli su tutta la terra, siamo in guerra, ma continuiamo soprattutto a essere in cura. E la cura abbraccia ogni aspetto della nostra esistenza chiedendo a ciascuno di dare il meglio di sé, dispiegando le proprie risorse umane ed etiche: forza, perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia… Doti sovente impiegate anche in guerra, ma insufficienti in quel contesto: infatti la guerra, a differenza della cura, necessita soprattutto di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro… La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza…

Rispetto per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano, per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti” – non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14).

In un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non coinvolgimento nelle opere del potere e della forza. E similmente avviene ancora oggi là dove la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la solidarietà dei poveri e degli artigiani di pace. Ancora oggi verrebbe da ripetere con il salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal 120,6-7).

La pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa, quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non “scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.




C’è bisogno di artigiani di pace; questo termine non suona a noi così immediatamente familiare, ma in altre lingue, ad esempio il francese, è il termine con il quale si traduce la beatitudine che noi definiamo con il termine “operatori di pace”. Ci sono caratteristiche dell’artigiano che vediamo come possano essere significative anche per pensare e generare un mondo aperto. Non vorrei idealizzare troppo la figura dell’artigiano, mi sembra però che in essa ci sia la dimensione dell’apprendistato all’operare.

Io credo che la capacità di generare la pace, è un’arte che si apprende, che si impara; è importante che questa generazione di un mondo aperto, interagisca con le varie strutture, che regolano i rapporti tra gli esseri umani e il loro vivere in società; Nella Fratelli tutti Papa Francesco collega gli artigiani di pace con la necessità di una architettura della pace.

Molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere gli artigiani veri, coloro che hanno due caratteristiche fondamentali: la prima è quella di aver appreso un’arte, una maestria diciamo; la seconda è quella di avere cura dei singoli oggetti, delle singole opere che vanno a realizzare. In realtà l’artigiano nasce, se così si può dire, dall’essersi messo alla scuola andando a bottega da qualcuno che può essere all’interno della famiglia, oppure presso un maestro al di fuori, che insegna i segreti del mestiere, soprattutto attraverso l’esempio. S’impara l’uso degli strumenti più appropriati, la scelta dei materiali, la pazienza nell’aspettare e nel capire qual è il momento giusto per realizzare la successione degli interventi sull’oggetto.

Questa è la parte formativa dell’artigiano; se volete è l’imparare a pensare in un dato modo il rapporto con il mondo, il rapporto con gli oggetti, il rapporto con un oggetto che ancora non c’è, ma che deve nascere. L’altra caratteristica dell’artigiano è che, appresa l’arte, la applica con cura agli oggetti e alle persone.

Dobbiamo riflettere su questa dimensione di non produrre in serie. La bottega non è una catena di montaggio, non è una macchina che produce cose, anche se si serve di macchine. Ogni pezzo prodotto, anche quando è prodotto con uno stampo, è un pezzo unico perché poi l’artigiano non solo lo rifinisce ma, avendo in mente la tipologia della persona che prenderà in mano quell’oggetto, lo elabora a partire da una doppia cura, la cura dell’oggetto e la cura del futuro utilizzatore dell’oggetto che sovente è anche il committente, colui che glielo ha ordinato. Pensate ai calzolai che facevano le scarpe su misura, sapevano fare le scarpe, ma poi le adattavano a delle persone in particolare. C’è questa cura per l’oggetto perché diventi ciò che deve essere, e poi c’è una cura che continua nel tempo e quindi diventa abilità, maestria, arte del saper riparare, del saper prendersi cura fino alla fine dell’oggetto.

 

Ulteriori spunti di riflessione / dibattito

  • Le armi sono prodotte in serie, gli strumenti di pace sono pezzi unici
  • La guerra è sempre uguale, anche se le armi diventano sempre più distruttive
  • La pace è sempre diversa, perché le persone, le culture, le società, le stagioni sono sempre diverse
  • Un cadavere è sempre uguale
  • Una persona viva è sempre unica e diversa, dalle altre e da se stessa di un tempo.
  • Io credo che, nel pensare a un mondo nuovo, la presenza e l’attività di artigiani di pace, artigiani di riconciliazione, artigiani di questa “generatività” verso un mondo nuovo, sia determinante: come si fa ad avere questa capacità di apertura, se non se ne sanno maneggiare gli strumenti che permettono e facilitano l’opera?
La pace avrà quel posto che saremo stati capaci di prepararle.

 



martedì 4 ottobre 2022

Artigiani di pace

La pubblicazione dell'ottimo thread di @albertoinfelise sui "Costruttori di pace sempre" https://twitter.com/albertoinfelise/status/1577296915917639680 

mi stimola a riprendere una parte del mio intervento sugli "Artigiani di pace" che ho condiviso con alcuni giovani in occasione di un seminario su "Vincere la pace", svoltosi  a Bose lo scorso agosto: https://www.monasterodibose.it/ospitalita/agenda/giovani-18-30/14882-vincere-la-pace

 

ARTIGIANI DI PACE

C’è bisogno di artigiani di pace; questo termine non suona a noi così immediatamente familiare, ma in altre lingue, ad esempio il francese, è il termine con il quale si traduce la beatitudine che noi definiamo con il termine “operatori di pace”. Ci sono caratteristiche dell’artigiano che vediamo come possano essere significative anche per pensare e generare un mondo aperto. Non vorrei idealizzare troppo la figura dell’artigiano, mi sembra però che in essa ci sia la dimensione dell’apprendistato all’operare.

Io credo che la capacità di generare la pace, è un’arte che si apprende, che si impara; è importante che questa generazione di un mondo aperto, interagisca con le varie strutture, che regolano i rapporti tra gli esseri umani e il loro vivere in società; Nella Fratelli tutti Papa Francesco collega gli artigiani di pace con la necessità di una architettura della pace.







Molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere gli artigiani veri, coloro che hanno due caratteristiche fondamentali: la prima è quella di aver appreso un’arte, una maestria diciamo; la seconda è quella di avere cura dei singoli oggetti, delle singole opere che vanno a realizzare. In realtà l’artigiano nasce, se così si può dire, dall’essersi messo alla scuola andando a bottega da qualcuno che può essere all’interno della famiglia, oppure presso un maestro al di fuori, che insegna i segreti del mestiere, soprattutto attraverso l’esempio. S’impara l’uso degli strumenti più appropriati, la scelta dei materiali, la pazienza nell’aspettare e nel capire qual è il momento giusto per realizzare la successione degli interventi sull’oggetto.


Questa è la parte formativa dell’artigiano; se volete è l’imparare a pensare in un dato modo il rapporto con il mondo, il rapporto con gli oggetti, il rapporto con un oggetto che ancora non c’è, ma che deve nascere. L’altra caratteristica dell’artigiano è che, appresa l’arte, la applica con cura agli oggetti e alle persone.

Dobbiamo riflettere su questa dimensione di non produrre in serie. La bottega non è una catena di montaggio, non è una macchina che produce cose, anche se si serve di macchine. Ogni pezzo prodotto, anche quando è prodotto con uno stampo, è un pezzo unico perché poi l’artigiano non solo lo rifinisce ma, avendo in mente la tipologia della persona che prenderà in mano quell’oggetto, lo elabora a partire da una doppia cura, la cura dell’oggetto e la cura del futuro utilizzatore dell’oggetto che sovente è anche il committente, colui che glielo ha ordinato. Pensate ai calzolai che facevano le scarpe su misura, sapevano fare le scarpe, ma poi le adattavano a delle persone in particolare. C’è questa cura per l’oggetto perché diventi ciò che deve essere, e poi c’è una cura che continua nel tempo e quindi diventa abilità, maestria, arte del saper riparare, del saper prendersi cura fino alla fine dell’oggetto.



Le armi sono prodotte in serie,
gli strumenti di pace sono pezzi unici

La guerra è sempre uguale,
anche se le armi diventano sempre più distruttive
La pace è sempre diversa,
perché le persone, le culture, le società, le stagioni sono sempre diverse

Un cadavere è sempre uguale
Una persona viva è sempre unica e diversa,
dalle altre e da se stessa di un tempo.


Io credo che, nel pensare a un mondo nuovo, la presenza e l’attività di artigiani di pace, artigiani di riconciliazione, artigiani di questa “generatività” verso un mondo nuovo, sia determinante: come si fa ad avere questa capacità di apertura, se non se ne sanno maneggiare gli strumenti che permettono e facilitano l’opera?




La pace avrà quel posto che saremo stati capaci di prepararle.

giovedì 31 marzo 2022

Disarmiamoci


 

 
Ho letto con interesse e coinvolgimento il recente articolo di Vito Mancuso del 29 marzo sul suo sito, dal titolo “Sulle armi e la loro necessità”. Vorrei evidenziare quelli che ritengo limiti e contraddizioni del ragionamento sviluppato da Mancuso.
Innanzitutto, pur parlando di armi, sarebbe bene “disarmare” il linguaggio: davvero ci siamo messi tutti ad “armare la propria” mente? Davvero ci informiamo solo per “acquisire munizioni cognitive per bombardare con le nostre parole le postazioni avversari”? Abbiamo visto con la pandemia come sia facile – ma anche pericoloso e controproducente – fare ricorso al linguaggio della guerra anziché a quello della cura: non mi pare fecondo utilizzarlo anche per un serio dibattito pubblico. Non si rischia in questo modo di ergere a paradigma la logica del “discorso di odio”? Inoltre mi pare si venga così a creare un cortocircuito con la conclusione del ragionamento di Mancuso: come ipotizzare “un investimento [dei governi] ancora più importante riservando all’educazione della coscienza il doppio di quanto investono per le armi”, se ogni acquisizione di nozioni – presupposto per un’educazione della coscienza – è vista come incetta di “munizioni cognitive per bombardare”?
Personalmente, e non mi pare proprio di essere l’unico, leggo e mi informo per cercare di capire, sia gli eventi che le loro conseguenze sulle persone, sul loro modo di pensare e di agire; leggo e mi informo per mettere alla prova le mie convinzioni, per discernere cioè che maggiormente favorisce la pace giusta, la dignità di essere umano, la fratellanza universale.
Trovo fuorviante il riferimento a “l’insegnamento di Moro e di Campanella (e di molti altri che prefigurarono lo stato ideale, a partire da Platone)” per ribadire che perfino nel mondo dell’utopia le armi sono previste e necessarie in quanto “nello sforzo di ricercare la pace e l’armonia sopra ogni altra cosa non si può evitare di fare i conti con la realtà e con il male che essa purtroppo contiene, se si vuole essere responsabili”. Perché, invece di prendere esempi nel mondo immaginario, non ha citato persone che hanno fatto sì i conti con la realtà e con il male che contiene, ma lo hanno fatto molto realisticamente e in modo nonviolento? Non sembra a Mancuso che Gandhi o Martin Luther King o altri “nonviolenti attivi” avrebbero qualcosa da dire ancora oggi, forse ancor più, almeno su questo argomento, di Moro e Campanella? Così si terrebbe anche conto che le armi di cui parlavano Platone, Moro e Campanella non sono neanche lontanamente paragonabili non solo agli odierni ordigni nucleari ma neanche alle armi “convenzionali”.
Mancuso inoltre sembra ignorare che la stessa legislazione italiana, nel lungo iter che ha preceduto e seguito la Legge 772/1972 sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare ha stabilito che il sacro dovere di difesa della patria può essere assolto anche senza armi? È al corrente che questo “sacro dovere” non è venuto meno neanche dopo l’abolizione del servizio di leva obbligatorio?
La sua domanda “come ci si difende senza le armi?” è artificio retorico oppure ignoranza di tutta l’ormai secolare prassi (e relativa ampia letteratura) sulla “difesa popolare nonviolenta”? O entrambe le cose? È al corrente che uno stato sovrano come il Costarica ha rinunciato all’esercito più di settant’anni fa e gode di un tenore di vita nettamente migliore di quello dei paesi confinanti?
Le mie sono osservazioni ingenue, ma confido venga loro riconosciuta la nonviolenza che intendono esprimere e alimentare.

domenica 6 febbraio 2022

Parla di questo popolo del Myanmar

A distanza di un anno dal colpo di stato in Myanmar ho ricevuto una lettera aperta da un missionario che vive in quella terra e che chiede con struggente forza e mitezza di "parlare di questo popolo", affinché "un popolo così bello non cada nel nostro silenzio".

E' quello che faccio con questo post, memore del mio "Pellegrinaggio di giustizia e pace" con il Consiglio Ecumenico delle Chiese nei campi profughi interni nel Kachin, nel 2019.

I miei sentimenti sono così ben espressi dalle parole di quest'uomo di fede, abitato dall'umanità delle persone in mezzo alle quali vive.

 


 

 Il 31 Gennaio del 2021 c'era un grande senso di attesa ed eccitazione in strada e nelle case, come la sensazione che quanto avevamo vissuto negli ultimi cinque anni non fosse stato un sogno o un'illusione, ma vita vera. 

Il giorno dopo, il 1 Febbraio, il nuovo governo si sarebbe insediato, il secondo governo eletto democraticamente nella storia moderna del Myanmar.

I militari avevano già circondato l'hotel dove si erano radunati i nuovi membri del governo, c'erano voci e minacce, ma tutti avevamo fiducia nel fatto che non sarebbe più stato possibile un passo indietro e un ritorno alla dittatura. Il gusto della libertà entra velocemente e profondamente dentro i pensieri, le emozioni, le relazioni di chi lo assapora. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di costruire se stessi nello spazio e nel tempo, di sognare e costruire il proprio futuro. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di innamorarsi, il modo di vivere e morire, il modo di lavorare: è un vocabolario nuovo, sono azioni nuove, sono emozioni nuove, sono pensieri nuovi.

Il 31 Gennaio del 2021 tutti pensavamo che nessuno, neanche i militari, avrebbero potuto fare a meno di questo gusto, che tutti ne fossero stati ammaliati e contagiati, che tutti se ne fossero innamorati, che tutti avessero dato nuove forme alla propria vita e ai propri sogni.

Il 1 Febbraio del 2021 ci siamo svegliati nel silenzio. Le comunicazioni erano interrotte: i collegamenti telefonici disattivati, internet inaccessibile, i canali televisivi oscurati. Il gusto della libertà, tuttavia, aveva ancora il potere di far pensare a un guasto tecnico: il gusto della libertà vive della fiducia, e c'era fiducia che non fosse successo niente.

Nelle prime ore del mattino, chi aveva antenne paraboliche con la possibilità di intercettare canali televisivi della Thailandia e canali di news internazionali, cominciava invece ad ascoltare voci antiche, ancora temute: la Signora era stata arrestata assieme al Presidente dell'Unione del Myanmar e ad altri membri del partito di maggioranza che avrebbero giurato fedeltà alla Costituzione poche ore dopo.

Al senso di attesa ed eccitazione delle ore precedenti, fa seguito una cascata di emozioni: sgomento, paura, rabbia, tristezza, incredulità.

C'è confusione: era sogno il gusto della libertà oppure è sogno il ritorno alla dittatura?

Cala un grande silenzio sul Myanmar: non c'è forza di parlare, non c'è forza per immaginare vecchi e nuovi scenari, non c'è più voglia di chiamare all'appello la rabbia di decenni di abusi e soprusi. Non c'è più spazio per questo nel cuore.

Verso mezzogiorno le comunicazioni si attivano nuovamente, iniziano le telefonate, le informazioni, le televisioni di stato trasmettono le immagini dei militari che prendono possesso del parlamento. Per strada si vedono già i primi posti di blocco, i militari allestiscono la coreografia antica del Myanmar: i "fantasmi verdi" tornano nelle strade, nelle case, nelle vite delle persone.

Ci scambiamo messaggi, ci diciamo che durerà poco, che la comunità internazionale non potrà accettare questo stato di cose, che la Signora e il Presidente saranno subito liberati, ma dentro c'è pianto, c'è lutto, c'è una grande domanda che pesa sulla coscienza, ed è la domanda del perché: perché è successo ancora? Perché la pace deve essere sempre così irraggiungibile? Perché la pace, che è così bella, deve essere sempre criminalizzata, vista con sospetto, maltrattata e violentata? Perché la libertà deve essere desiderata come un miraggio e mai gustata come la condizione originaria della Creazione, come il modo giusto di essere e di vivere nella storia?

In poche ore si organizzano manifestazioni e scioperi generali. Tra il 2 e il 3 Febbraio il Myanmar scende in strada: lo fa con gentilezza, con garbo. Il popolo del Myanmar scende in strada per dire che "la nazione è nostra". Il popolo mostra il suo volto più bello e gentile: non urla, ma canta. Offre fiori e bottiglie d'acqua alla polizia, perché stare sotto il sole è pesante. I manifestanti si fanno selfie con le forze dell'ordine perché "la nazione è nostra", è di tutti, siamo un unico popolo, e questo è solo un momento di passaggio per capire quanto è bella la pace, quanto è giusta e gustosa la libertà. Alla fine delle giornate di dimostrazioni pacifiche, nella città dove vivo, i giovani che avevano manifestato organizzano gruppi per pulire la città, per renderla bella e pulita, come sempre, perché questa "è la nostra citta'". A Febbraio ci sono canti, fiori, acqua da bere per tutti e selfie.

Ma il 28 Febbraio arriva l'ordine di sparare alle folle. Un mese di scioperi, di canti e manifestazioni sono inammissibili. Non ci sono più fiori, ma proiettili e manganelli. Non ci sono più selfie, ma arresti di massa. Non c'è più acqua, ma sangue.

Seguono mesi di violenze, di privazioni sempre più gravi e violente della libertà, privazioni che si insinuano in ogni gesto e in ogni momento della vita personale e sociale. Fino ad arrivare alle privazioni di oggi, in cui ogni gesto di vita è un atto criminale. Non scendo nei dettagli: sono umilianti anche nella narrazione, riguardano ogni gesto della vita relazionale della vita comune, ogni gesto della vita personale di chiunque voglia sapere, dire, ascoltare, vedere.

Il vivere stesso è stato criminalizzato, l’esserci con questo corpo e con questa capacità di pensare, desiderare, provare emozioni: tutto questo è diventato un gesto criminale. In birmano si dice che “la legge e’ nella bocca di chi parla”, nella bocca di chi ti ferma per strada, e in quel frangente, in quello scambio di sguardi e di parole, ogni gesto può essere risolutivo o fatale: guardare negli occhi o evitare lo sguardo, sorridere o restare impassibile, far finta di nulla o dire tutta la verità.

Circolano numeri di morti e arresti: sono tutti falsi. Ve ne sono molti di più: gli arresti sono rapimenti in cui i due terzi delle persone "arrestate" scompaiono nel nulla, e restano fino ad oggi nel "nulla" del silenzio. Migliaia e migliaia di persone.

Gli abusi e le violenze non vengono censite, non rientrano nelle statistiche: i morti in seguito alle percosse a casa non hanno spazio nelle notizie e nei censimenti, la tragedia delle violenze sessuali con cui i militari uccidono, intimoriscono, esercitano la pratica della vendetta non appaiono sui rotocalchi in cui scriviamo le nostre cronache di provincia o gli ultimi colpi mercenari del calcio mercato.

Con il passare delle settimane, la guerriglia di strada diventa persecuzione casa per casa, e inizia la guerra civile tra i militari e i gruppi della resistenza: da una parte armi sofisticate e pesanti, uniformi ad alta tecnologia; dall’altra parte infradito e calzonicini corti, armi costruite a casa, qualche fucile rimediato al mercato nero.

E la guerra chiama altra guerra, chiama altra morte, distruzione, devastazione, violenza, odio.

E inizia così anche il grande silenzio del mondo sul Myanmar e su tutti quei popoli di cui il Myanmar è simbolo. Inizia e continua il silenzio su tutti quei dolori di guerra e morte che l'umanità vive, in una solitudine difficile da immaginare. Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo cronicamente al margine: al margine dell’attenzione, al margine delle cronache, al margine delle nostre preghiere, al margine degli interessi di mercato e di potere, al margine delle voci che hanno diritto a farsi sentire e a parlare, al margine delle decisioni.

Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo al margine e cronicamente in attesa di essere avvicinato, di essere reso presente, di essere ascoltato, oggetto di attenzione, di preghiera, di intervento. C’è sempre un popolo che avrebbe tanto dire, ma a cui non è concesso spazio di parola.

Ma qui comincia anche il silenzio del popolo del Myanmar.

È un popolo che sa vivere nel silenzio e ai margini della storia, quello del Myanmar. Un popolo umile, un popolo bello nella sua silenziosa dignità. Ha cantato quando ha potuto, ma non svende la propria voce.

Il popolo del Myanmar è tutto descritto nella Parola di Dio: è una figura profetica, è il Vangelo che continua a vivere nella nostra storia di uomini e donne. Il popolo del Myanmar vive nella carne del Servo di IHWH: "Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" (Is 53,3).

E nel suo dolore, come "uomo che ben conosce il patire", vive il silenzio come luogo della propria libertà, come luogo dove continua a promettere pace e libertà a sé stesso: "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca" (Is 53,7).

Nella città dove vivo, negli ultimi mesi, sono arrivate decine di migliaia di persone in fuga dalla guerra e dalla violenza: un esodo che a livello nazionale conta diverse centinaia di migliaia di persone. Nel Centro dove mi trovo, abbiamo ascoltato centinaia di persone, tutte forme nuove di dolore, e con queste persone abbiamo attraversato soglie di umanità e disumanità a cui non eravamo pronti, e cui non è possibile prepararsi.

Le carovane in fuga dalle zone di guerra sono state bersagliate da cecchini militari. Chi è sfuggito ai proiettili, non ha potuto evitare i posti di controllo. Una mamma arrivata da noi al Centro, una volta scesa dall'auto, non è più riuscita a muoversi, bloccata dallo shock di quanto vissuto. Al posto di blocco per entrare in città, i militari hanno preso sua figlia di tre settimane (!), le hanno tolto le fasce in cui era avvolta per ripararla dal freddo per perquisirla (qui è inverno, e siamo in montagna, c'è freddo vero). L’hanno “sfasciata” per verificare che nulla fosse nascosto nelle fasce di una bambina di tre settimane.

Questo non è un evento che racconto per impietosire o disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo.

Un uomo di oltre 70 anni, già da un anno colpito da ictus e paralizzato su tutto il lato sinistro del corpo, è stato costretto a camminare e a strisciare per verificare che non stesse fingendo per sfuggire alle perquisizioni. E' arrivato sporco di terra e sangue, ma più della terra e del sangue lo hanno ferito le lacrime che ha dovuto versare per il dolore e l'umiliazione subita davanti alla propria moglie, ai propri figli e ai propri nipoti: ferito dall'umiliazione di dover strisciare.

Questo non è un evento che racconto per impietosire e disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo. Potrei continuare con la litania degli orrori, ma non voglio, perché c'è anche un'altra litania del bene, la litania del popolo che si raccoglie nel proprio silenzio per custodire la propria dignità e la propria felicità.

Mentre ti scrivo, sento bambini ridere e giocare, sento la musica che le mamme ascoltano mentre preparano il pranzo, sento la chitarra dei giovani che sono impegnati in prove di innamoramento, sento due maestre che stanno leggendo ad alta voce i nomi dei bambini della scuola che apriremo giovedì per tutti i bambini sfollati del nostro quartiere: non vogliamo lasciar fuori nessuno!

Il popolo del Myanmar sa vivere nel silenzio: ne ha fatto una spiritualità, e nel silenzio del proprio dolore trova la forza di tenere lontana la violenza e gli abusi con cui vogliono essere imprigionati e violentati.

"Nel nostro silenzio vinciamo sempre", questo è quanto mi ha detto un mamma che vive con noi.

Qui al Centro dove vivo, ogni giorno, da un anno, prego e celebro l'Eucaristia con persone che non hanno dove posare il capo. Ogni giorno, da un anno, mangio con persone che non hanno dimora. Ogni giorno, da un anno, scherzo con bambini la cui famiglia è stata spaccata, divisa dal conflitto, perseguitata, uccisa.

Ed ogni giorno, in questo silenzio veramente contemplativo, c'è spazio per la gioia e la speranza, per il sorriso e per la gratitudine. Ogni giorno vivo con un popolo che si nutre della gratitudine di quanto respira e assapora, della gratitudine per un saluto e un "grazie" detto in onestà. Ogni giorno vivo con un popolo che rende ancora possibile il vivere quotidiano, perché in un tempo dove tutto il sistema nazione è collassato, dove non esiste più alcuna forma di governo e controllo, dove non è più assicurata la cura di base della salute, esiste la quotidianità della generosità e della cura reciproca, della fiducia che l'altro non mi sarà nemico, ma amico, che ci proteggeremo a vicenda, e che in questo proteggersi accoglieremo i rischi, ma anche tutto il bene, di vivere l'uno per l'altro.

Il popolo del Myanmar, nel suo silenzio, sa abitare il dolore. Guardo a questo popolo con un senso di ammirazione e rispetto che non avevo mai provato prima in vita mia. E’ un popolo che attira affetto, che non può che farsi amare. 

 

Penso a questo popolo come al popolo delle Beatitudini.

Beati i poveri in spirito, e beato il popolo del Myanmar che nella sua impotenza davanti al male, sa che il suo cuore è una forza inviolabile, impenetrabile.

Beati quelli che sono nel pianto, e beato il popolo del Myanmar che nelle sue famiglie spaccate e divise dalla violenza, piange per "irrigare il suo futuro", per dare gioia ai figli e alle figlie di una terra che piange come un gesto di intimità con la propria storia.

Beati i miti, e beato il popolo del Myanmar che non alza la voce, che guarda alla morte con la stessa tenerezza con cui si guarda una sorella amata, da sempre vicina, la sorella più fedele, quella che fino ad ora non ha ancora tradito alcuna delle proprie promesse.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, e beato il popolo del Myanmar che sa bene che la giustizia non è un diritto ereditato dalla storia, ma un cammino difficile e doloroso, una scelta di vita per la quale bisogna essere disposti anche a morire.

Beati i misericordiosi, e beato il popolo del Myanmar, che non chiede vendetta, non la desidera e non la stima, ma chiede solo di poter vivere nella pace e di essere lasciato nella pace.

Beati i puri di cuore, e beato il popolo del Myanmar, con cui è bello vivere, e da cui imparo cosa sia il perdono, da cui imparo cosa sia la gioia delle cose semplici, da cui imparo cosa sia la pazienza, cosa sia l'amore che tutto copre, e con cui sto scoprendo cosa sia la felicità!

Beati gli operatori di pace, e beato il popolo del Myanmar, perché dal proprio sangue ha imparato a fare la pace, ha imparato a desiderarla per tutti, e beato il popolo del Myanmar perché ogni giorno non prega solo per la pace per sé, ma prega per la pace dei popoli, per la pace dell'umanità, perché la pace è bella.

Beati i perseguitati per la giustizia, e beato il popolo del Myanmar, perchè in questa persecuzione impara l'unità, vive la generosità, insegna la perfetta letizia.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male, e beato il popolo del Myanmar che sa sperare nel bene, che sa parlare il vocabolario del Regno dei Cieli. Beato il popolo del Myanmar che sa parlare di amore, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di riconciliazione, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di fedeltà, e quando ne parla dice la verità. 

 

 


Il popolo del Myanmar è timido, si vergogna quando è al centro dell'attenzione, si imbarazza davanti alle lodi. Il popolo del Myanmar è forte e delicato: ha una forte delicatezza.

Sa amare con fedeltà e si lascia amare con docilità, ma richiede di essere guardato e amato con la stessa delicatezza con cui ama, perché ha troppe ferite.

Ieri sera, tardi, dalla stanza in cui scrivo adesso, sentivo le voci delle famiglie che pregavano il rosario: una voce che spaccava il buio, una preghiera che penetrava la tenebra illuminandola. Ecco come immagino il silenzio del popolo del Myanmar: parla nel buio, parla con la tenebra, perché la sa vivere, e cioè sa illuminarla.

Ti scrivo queste righe con una richiesta: che un popolo così bello non cada nel nostro silenzio.

Per favore: parlane! Parla di questo popolo con chiunque: al lavoro, in famiglia, con gli amici, a scuola, al bar, con i tuoi compagni di squadra, con il tuo fidanzato o la tua fidanzata, durante le tue omelie, con il medico di famiglia. Con chiunque.

Se puoi, parlane! Con delicatezza, perché questo popolo ha una lezione importante da dare alla storia dell'umanità: questo popolo, come pochi, incarna il discepolo del Regno dei Cieli nella storia, che reso seme, nella terra cade e muore, ma dona vita.

Parlane, perché parlarne è un'opera di pace, e "un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (Gc 3,18).

 

Un missionario in Myanmar

mercoledì 3 novembre 2021

SERVE UN ESERCITO IN PIÙ?

Quattro novembre: fino a pochi anni fa in Italia si festeggiava l’anniversario della vittoria. Quest’anno si celebra anche il centenario della tumulazione della salma del “Milite ignoto” al Vittoriano, al termine del viaggio da Aquileia a Roma.


 

Occasione per fare memoria dell’immane prezzo che quella “inutile strage” ha voluto fosse pagato da tanti uomini e diverse donne, non certo “ignoti” a padri, madri, figli e figlie, amici che li avevano amati e perduti.


 

Nel Comune in cui risiedo i ceppi in memoria dei giovani caduti nella I Guerra mondiale sono 42: ho calcolato che corrispondono al 10% della popolazione maschile tra i 18 e i 40 anni che allora popolava il paese.

 


Ma questo 4 novembre è occasione anche per qualche riflessione e interrogativo sull’“esercito europeo”, la forza di difesa comune rievocata anche dalla presidente della Commissione europea nel suo recente “discorso dell’Unione”.

Ci si potrebbe rallegrare che quegli stessi Stati nazionali, che solo cent’anni fa (e poi ancora ottant’anni fa) avevano mandato alla carneficina ciascuno i propri giovani in eserciti ferocemente contrapposti, ora chiedano loro di impugnare – questa volta “professionalmente” – le armi in unico esercito, per fronteggiare insieme nuovi, diversi nemici.

E da un po’ di tempo il discorso pubblico si sta prodigando nell’inoculare dosi omeopatiche di accenni sempre più pervasivi sulla bontà-necessità-inevitabilità-urgenza-efficacia di un esercito comune europeo.

Ma le cose a me non paiono essere così positive.

La nuova forza di difesa comune, infatti, non sostituisce i singoli eserciti nazionali e nemmeno le truppe della NATO: vi si affianca, producendo come risultato non ventisette eserciti in meno, bensì uno in più.

Ora, l’Unione Europea non è (ancora, lo sarà mai?) uno Stato federale e gli eserciti esistenti non sono semplici “Guardie nazionali”, né esiste un Ministro della Difesa europeo, ma un Alto rappresentante per gli Affari esteri (cosa diversa dall’avere una politica estera comune, che infatti non esiste).

Sorgono allora spontanee alcune domande alle quali si fa fatica a trovare risposte chiare ed esaurienti nella comunicazione omeopatica di cui dicevo sopra:

Quale organismo democratico (Parlamento o simili) delibera condizioni, eventi e momenti puntuali nonché le regole di ingaggio e il finanziamento per l’uso dell’esercito europeo?

Chi può essere considerato il Comandante in capo o Capo supremo di tali forze armate?

Visto che non esiste una specifica tassazione europea, né una comune politica fiscale, con quali tasse europee verrà armato e mantenuto in efficienza tale esercito?

Chi deciderà gli armamenti di cui dotarlo?

E se una o più nazioni europee non condividono uno specifico impiego di tale esercito, sarà valida anche in campo militare la supremazia della legislazione europea su quelle nazionali?

E se, sempre per ipotesi, una o più nazioni, magari anche dotata di armamenti nucleari di cui l’esercito europeo non dispone, non accettasse tale subordinazione?

E se una nazione, membro della NATO ma non della UE, magari affacciata sul Mediterraneo, decidesse che la politica militare della UE non è di suo gradimento, come si comporterebbe la UE?

E se si dovessero verificare interessi divergenti tra NATO e UE sull’uso degli armamenti nucleari stoccati in una nazione membro sia della NATO che della UE, chi ne decide l’effettivo utilizzo?


Domande peregrine che un monaco non dovrebbe porsi, almeno stando a quanto disse l’abate generale dei trappisti a Thomas Merton, vietandogli di pubblicare i suoi scritti sulla pace “perché un monaco non deve occuparsi di questi argomenti politici”.

Ma il breve discorso di papa Francesco al cimitero militare francese il giorno della Commemorazione dei defunti – ennesimo suo intervento volto a fermare le guerre e a biasimare fabbricanti e commercianti di armi – mi ha riportato alle pagine della Pacem in terris e alla sua messa al bando del ristabilimento della giustizia attraverso la guerra:È alieno dalla ragione pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (§ 67).

Ma forse il costituendo esercito europeo non ha in programma alcuna guerra, solo un incremento del commercio di armi, che è secoli che vengono fabbricate e vendute ma, come si sa, non usate. Meglio così.

 


mercoledì 30 giugno 2021

Il razzismo che ci riguarda

 A margine della discussione sull'inginocchiarsi o meno da parte dei giocatori della nazionale italiana di calcio in segno di solidarietà con il movimento Black Lives Matter pubblico un mio intervento a un seminario sul Razzismo, svoltosi in Giappone nel settembre 2019 nell'ambito del Pellegrinaggio di Giustizia e Pace del Consiglio Ecumenico delle Chiese. 

Il testo inglese è stato pubblicato in The Ecumenical Review 2019-12

 


 

RAZZISMO, XENOFOBIA E MIGRAZIONI

IN ITALIA, PAESE POST-CATTOLICO

Fr. Guido Dotti, Monastero di Bose , Italia


Terra e spaesamento

“Essere istruite”, così rispondeva una adolescente di un campo di rifugiati interni nello stato del Kachin in Myanmar a una domanda del nostro Pilgrim Team su quale fosse “la vita migliore” che lei e le sue compagne si auguravano per il proprio futuro. E aggiungeva: “Io, per esempio, vorrei diventare musicista e poi… membro del Parlamento, così da poter restituire la terra al nostro popolo che vi potrà vivere coltivandola”. Come le sue amiche, aveva al massimo quattordici anni e ne aveva trascorsi già sette in quel campo distante solo alcune decine di chilometri dal villaggio natale. La determinazione e la speranza di quelle ragazze – e di altri coetanei incontrati nei vari campi visitati – sono stati per me e sono tuttora una chiave di rilettura decisiva degli eventi che da decenni e in particolare in questo ultimo anno attraversano il mio paese, l’Italia: un paese di antica tradizione cristiana e cattolica ormai smarrita come identità collettiva, una nazione che dalla sua nascita come stato unitario (1861) è caratterizzata dalla migrazione – esterna e interna – di milioni di suoi cittadini e ora, da alcuni decenni, anche dall’immigrazione di persone provenienti dall’Est e dal Sud, dalle terre al di là delle Alpi e del Mediterraneo.

“Terra e spaesamento” sono perciò due ambiti che ben riassumono alcuni tratti essenziali dell’identità italiana e quindi due lenti attraverso le quali esaminare oggi il fenomeno del razzismo in un paese che, come vedremo, potremmo definire “post-cattolico”. Legame con la terra, cultura contadina da un lato e, dall’altro, necessità di emigrare, desiderio di essere accolti e fatica nell’accogliere: sono caratteristiche che accomunano gli italiani a molte delle popolazioni visitate nel corso del Pellegrinaggio di Giustizia e Pace del Consiglio ecumenico delle Chiese, ben al di là delle evidenti differenze di cultura, etnia, religione.


Un paese etnicamente e culturalmente omogeneo?

Anche le vicende della mia famiglia e la mia personale trovano risonanze particolari nelle tematiche legate alla terra, all’emigrazione e al razzismo. Una mia nonna nacque in Argentina alla fine del XIX secolo da immigrati italiani, mentre i due miei nonni e mio padre da giovani hanno lavorato per alcuni anni in altri paesi europei. A mia volta, dopo aver avuto compagni di classe ebrei alle scuole medie e superiori, ho vissuto come giovane novizio e studente in Svizzera durante gli anni della campagna xenofoba in occasione del secondo referendum popolare contro gli stranieri (ottobre 1974), mentre da alcuni anni mi occupo in prima persona dell’accoglienza e dell’inserimento in Italia di alcuni immigrati e richiedenti asilo provenienti dall’Africa sub-sahariana, accolti dalla comunità monastica di cui sono membro dal 1972. Tra i fratelli e le sorelle del mio monastero – di sei diverse nazionalità e di svariate regioni italiane – una è cittadina statunitense di origine ucraina, mentre un fratello appartiene agli “italiani di seconda generazione”, essendo nato in Italia da genitori dello Sri Lanka. Un insieme di circostanze, comunque, per nulla rare oggi in un paese che invece all’estero si è soliti considerare essenzialmente uniforme dal punto di vista etnico.

Del resto, sulla presunta secolare o addirittura millenaria omogeneità etnica degli abitanti della penisola italica ci sarebbe molto da dire, a cominciare almeno dal mitico sbarco di Enea e dei troiani sopravvissuti alla distruzione della loro città, giunti ai lidi italiani dopo essere stati prima respinti1 e poi soccorsi2 dalla regina Didone a Cartagine, come epicamente racconta Virgilio in brani di tragica attualità dell’Eneide. Da allora i Romani si intrecceranno con i vinti Etruschi, l’impero si arricchirà culturalmente della saggezza dello spagnolo Seneca come del dalmata Gerolamo, prima di cedere il potere ai “barbari” Visigoti, mentre al sud della penisola, in Sicilia e sulle coste adriatiche si succederanno nei secoli Bizantini, Saraceni, Arabi, Normanni… In Sardegna orientale sarà la volta dei Catalani, che lasceranno in eredità la lingua, ancora dominante nell’odierno dialetto. Al nord Celti, Longobardi e Franchi si intrecceranno con le variegate popolazioni locali, dando origine a inevitabili meticciati, mentre quasi ogni secolo porterà lungo tutta la penisola una varietà di popolazioni con usi, costumi, lingue ed etnie diverse – Unni, Lanzichenecchi, poi Spagnoli, Francesi, Svevi… – tutte portatrici di fecondi intrecci non solo culturali.

Anche la lingua di Dante dovrà attendere la seconda metà del XX secolo prima di diventare – grazie alla scuola pubblica obbligatoria, al servizio militare universale e, soprattutto, alla diffusione della radio e della televisione – la lingua realmente nazionale, finendo per prevalere sui dialetti locali anche nelle classi sociali più povere. Senza dimenticare che minoranze linguistiche – francofone, allemanofone, occitane, albanesi, slovene… – permangono, più o meno garantite, in alcune aree del paese.


Il sorgere del problema razziale

È tuttavia con l’inizio del XX secolo che i fattori legati all’esigenza di avere nuove terre da coltivare e alla necessità di emigrare avranno pesanti ricadute nel sorgere di pregiudizi razziali e di pulsioni razziste. Fino ad allora le migrazioni nelle Americhe – iniziate già nel XIX secolo, poco dopo l’unità d’Italia – e in parte anche quelle stagionali nei paesi europei limitrofi avvenivano per blocchi omogenei di conterranei che mantenevano legami molto stretti tra loro anche nei paesi di arrivo: gli italiani all’estero, come tutti gli immigrati, erano il più sovente vittime di atteggiamenti razzisti da parte delle popolazioni locali, anche e soprattutto a causa della lotta concorrenziale per le esigenze vitali: la terra, la casa, il lavoro.

Ma con le mire coloniali italiane in Eritrea e Somalia – iniziate già negli ultimi decenni del XIX secolo – e soprattutto con l’espansione degli interessi italiani in Libia e la conseguente guerra italo-turca (1911-1912) che porterà alla conquista militare di quel paese, le problematiche legate ai rapporti stabili con le popolazioni arabe locali assumono caratteri sempre più marcati di contrapposizioni razziali. Sarà però l’avvento del fascismo (1922), la successiva invasione e occupazione dell’Etiopia (1928-1936), la nascita dell’Africa Orientale Italiana (AOI) – comprendente anche la Somalia – e la conseguente proclamazione dell’Impero italiano (1936) a trasformare le questioni razziali in manifesto razzismo. In questo frangente cruciale si rivelò determinante il mutato atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del regime fascista, in conseguenza della firma dei Patti Lateranensi e del Concordato (1929) tra la Santa Sede e lo Stato italiano, che sigillavano il pieno riconoscimento del Regno d’Italia da parte della Santa Sede e la fine del divieto per i cattolici di prendere parte alla vita politica del paese (in vigore fino al 1919), proclamando al contempo il cattolicesimo come “religione di Stato”.


Dal “Manifesto della razza” alle Leggi razziali

“Il primo provvedimento in materia razziale in Italia fu promulgato dal governo Mussolini nell’aprile del 1937: esso vietava, comminando pesanti pene detentive, ai cittadini italiani di ‘tenere relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana’”3. Timore, quindi, di imbastardire la “razza” italiana e preoccupazione di non favorire quella “assimilazione” perseguita invece nei medesimi anni da Francia e Inghilterra e considerata una minaccia alla purezza della razza bianca. In quest’ottica le stesse autorità cattoliche – in particolare i missionari presenti nelle colonie – collaborarono attivamente nel dissuadere i cattolici dal contrarre matrimoni “misti” – definiti “ibridi unioni” – contaminando la pretesa “purezza della razza” che si iniziava a propagandare con l’apporto di nozioni eugenetiche di ben dubbia scientificità.

Fu così che il 15 luglio 1938 il Giornale d’Italia pubblicò con l’eloquente titolo “Il fascismo e i problemi della razza” un Manifesto frutto del lavoro di un gruppo anonimo di studiosi e docenti fascisti. L’obiettivo apparente era quello di fornire una giustificazione culturale alle disposizioni previste per affrontare la cosiddetta “questione coloniale”. Rileggere oggi anche solo gli incipit dei dieci punti del Manifesto suscita brividi ed evidenzia come non avrebbero potuto tardare le successive leggi razziali contro gli ebrei: “1. Le razze umane esistono; 2. Esistono grandi razze e piccole razze; 3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico; 4. La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana; 5. È leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici; 6. Esiste ormai una ‘pura razza italiana’; 7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; 8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte, gli Orientali e gli Africani dall’altra; 9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana; 10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo”4.

Si può forse discutere sul fatto che simili affermazioni avessero o meno a che fare con le conoscenze scientifiche dell’epoca, quello che invece è certo è che non avessero – né allora né mai – alcun fondamento nel dettato evangelico. Per quanto concerne l’aspetto principale di questa nostra riflessione – il rapporto tra razzismo e cattolicesimo italiano – è allora amaro il dover constatare come le scarse preoccupazioni della gerarchia cattolica si limitassero da un lato a minimizzare le ricadute di simili affermazioni sull’esigua minoranza ebraica in Italia e, d’altro lato, a sottolineare le differenze tra “razzismo vero e proprio” (quello del nazismo tedesco, pagano e idolatrico) e la “politica razziale” italiana, tesa al miglioramento della razza umana. In questo quadro generale che accomuna diplomazia vaticana ed episcopato italiano, va tuttavia sottolineato l’atteggiamento molto più preoccupato di papa Pio XI che “assunse una posizione di critica aperta nei confronti della nuova politica razziale inaugurata dal regime”5, al punto da provocare malumori e imbarazzo in alcuni prelati maggiormente in sintonia con gli ambienti governativi.

Considerato l’atteggiamento dialogante o quanto meno interlocutorio della gerarchia cattolica, non sorprende allora il silenzio e l’acquiescenza della stessa al momento dell’emanazione delle tristemente famose “Leggi razziali”6, di cui è sufficiente leggere il paragrafo iniziale dell’art. 1 e gli artt. 2 e 3 per cogliere l’insanabile frattura tra ideologia fascista e dettato evangelico o, più semplicemente, morale cattolica7. Da quella tragica data il rifiuto esplicito del razzismo da parte della Chiesa cattolica in Italia sarà patrimonio di una minoranza di ecclesiastici e di laici cattolici, pronti – a volte anche a prezzo della vita – a testimoniare il rifiuto di disposizioni così palesemente antievangeliche e disumane e a prodigarsi nell’aiutare i propri concittadini di fede ebraica.

La notte dell’umanità che l’Italia, l’Europa e il mondo intero conosceranno negli anni del secondo conflitto mondiale avrà avuto come prodromi proprio la mancata risoluta opposizione e condanna di quelle parole avvelenate da razzismo e antisemitismo.


Le migrazioni interne e il razzismo di casa nostra

Il regime fascista aveva cercato di mettere un freno all’emigrazione oltreoceano, cercando al contrario di richiamare in patria o nelle colonie gli italiani emigrati nelle Americhe. In quest’ottica venne avviata una politica agraria volta a ridurre la dipendenza dall’estero per i prodotti agricoli recuperando terre agricole incolte e riducendo i grandi latifondi. Un ruolo particolare lo assunse la bonifica dell’Agro Pontino in Lazio, avviata nel 1928 e potenziata nel 1931, reclutando manodopera tra le popolazioni più povere del Nord Italia – segnatamente dal Veneto – che si trovava a lavorare in condizioni di estrema insalubrità: così la possibilità di poter vivere della coltivazione di appezzamento di terra si accompagnò a un radicale spaesamento e a un tasso di mortalità assai elevato. Fu la prima grande migrazione interna al paese e riguardò essenzialmente il mondo rurale.

Un simile accostamento tra disponibilità di terra coltivabile e allontanamento dal paese di origine avverrà per tutt’altri motivi nel 1953: l’alluvione del Polesine obbligherà masse di contadini di quella zona a spostarsi in altre regioni del Nord a spiccata vocazione agricola.

Ma nel frattempo la tragedia della II guerra mondiale, la caduta del regime fascista, il referendum popolare che portò alla fine della monarchia e alla nascita della Repubblica italiana segnarono anche una svolta decisiva nell’atteggiamento verso il razzismo esplicito. La Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, così afferma nei suoi “principi fondamentali” non emendabili: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3), anticipando quanto verrà sancito anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del dicembre dello stesso anno.

La rinascita post-bellica e la ricostruzione di un paese stremato vedrà anche il progressivo e rapido passaggio da un’economia prevalentemente agricola a una sempre più industrializzata. Questo comporterà una nuova massiccia ondata migratoria sia all’estero sia interna, dal sud al nord del paese. Così i lavoratori italiani emigrati oltre confine – principalmente in Europa: Belgio, Germania, Francia, Svizzera… – e impiegati soprattutto nei settori minerari, delle costruzioni, della ristorazione, ma anche nell’agricoltura stagionale, conosceranno pregiudizi xenofobi e razziali da parte delle popolazioni locali e anche discriminazioni di tipo legale e amministrativo. Pregiudizi e ostilità che affliggeranno anche gli emigrati interni, specie quelli provenienti da sud, chiamati a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord Italia: difficoltà a trovare alloggi in affitto, stereotipi e generalizzazioni circa abitudini malavitose, intolleranza verso usi e costumi tradizionali…


Xenofobia e razzismo

Ci vorranno decenni di difficile integrazione, ma – grazie sopratutto alla solidarietà operaia nelle fabbriche, alla liberalizzazione dell’accesso a tutte le facoltà universitarie anche per gli studenti provenienti dalle scuole tecniche, il progressivo intrecciarsi delle “seconde generazioni” di immigrati dal Sud Italia anche attraverso matrimoni e nuove famiglie “miste” – gli aspetti più macroscopici della “xenofobia”, cioè la paura del diverso, si attenueranno sempre più.

In questo percorso virtuoso anche il già ricordato affermarsi dell’italiano come lingua conosciuta e usata da tutti contribuirà a una maggiore coesione sociale. Né va dimenticato il ruolo della chiesa cattolica in pieno fervore di aggiornamento post-conciliare e il suo prodigarsi a livello parrocchiale locale per realizzare nella quotidianità una piena fraternità tra tutti i suoi membri.

Da almeno due decenni, tuttavia, questo arretramento dei pregiudizi e delle ostilità xenofobe e razziste si è arenato e la società italiana ha conosciuto e conosce ogni giorno di più una recrudescenza dei peggiori sentimenti di paura e di odio verso chi può essere considerato “altro”. La scomparsa della “cortina di ferro”, simboleggiata dal crollo del muro di Berlino e il conseguente affluire anche in Italia di un considerevole numero di nuovi immigrati dai paesi dell’est – in particolare dall’Albania e dalla Romania – hanno ben presto riprodotto i peggiori stereotipi cripto-razzisti: i media e l’opinione pubblica si influenzano a vicenda nell’additare (a torto o a ragione) gli stranieri come protagonisti sia della micro-criminalità che dei più efferati delitti. Le accuse, sovente infondate e comunque esagerate, che negli anni cinquanta e sessanta venivano attribuite ai “meridionali”, ora vengono imputate genericamente agli stranieri provenienti dall’est Europa.

Eppure, ci ricorda l’ex-senatore Luigi Manconi, “I dati che ci consegnano le scienze sociali ed economiche sono inequivocabili: le fasi iniziali dei flussi migratori, in assenza di adeguate politiche di regolarizzazione e inclusione, producono ovunque un incremento dei crimini: ed è altrettanto vero che l'immigrazione albanese e quella romena in Italia, dopo i primi anni di assestamento, ha visto ridursi i relativi tassi di criminalità”8.

Ma prima ancora che questa xenofobia diffusa potesse essere ricondotta a dati più oggettivi di malessere sociale, l’arrivo di profughi, richiedenti asilo e migranti economici partiti dalle sponde meridionali del Mediterraneo – ma provenienti in realtà dal Medio Oriente devastato dalle guerre o dall’Africa sub-sahariana vittima di carestie o di spogliazione delle sue risorse naturali ad opera delle multinazionali occidentali – provoca uno spostamento massiccio dei sentimenti xenofobi e razzisti verso i nord-africani e i ‘neri’. A nulla valgono i richiami ai numeri oggettivi e alla possibilità e necessità di regolare i flussi migratori: la crisi finanziaria mondiale offre il pretesto ideale per dirottare la paura e l’ansia della popolazione autoctona in maggiore difficoltà economica contro i più poveri, come se l’aver identificato degli “ultimi” cui addossare ogni colpa rendesse meno precaria e più sopportabile la condizione dei “penultimi”.

Con ragione Luigi Manconi nell’articolo già citato osservava che “la xenofobia – che è cosa assai diversa dal razzismo e che significa ciò che dice alla lettera, ovvero paura del diverso e dello sconosciuto – si diffonde e riguarda tutti noi. Anche coloro che si dichiarano fieramente anti-razzisti. Ed è proprio la xenofobia, che non è destinata necessariamente a tradursi in aggressività razzista, a dettare o comunque condizionare i nostri comportamenti e, ancor prima, i nostri pensieri in presenza di un evento traumatico”9. Ma senza una vigilanza sull’insorgere della xenofobia, senza una gestione del fenomeno migratorio, la strada verso il razzismo è spianata.

Terra, spaesamento e migrazioni: lo “ius soli”

Caso emblematico del rapporto tra legame con la terra, spaesamento dovuto all’emigrazione e razzismo è l’acceso dibattito sullo ius soli che ha attraversato l’opinione pubblica e le forze politiche italiana nella passata legislatura.

Come in altri paesi storicamente segnati dall’emigrazione, ancora oggi si diventa cittadini italiani in virtù dello ius sanguinis: un bambino è italiano fin dalla nascita se uno dei due genitori è italiano, in qualunque paese venga al mondo. Strumento un tempo necessario per garantire cittadinanza certa ai nostri emigrati indipendentemente dal paese di approdo e per mantenerli legati alla patria nell’eventualità di un ritorno in Italia. Così ancora oggi ci sono nel mondo milioni di italiani (molti dei quali con doppia cittadinanza) che non hanno mai vissuto in Italia, che non ne conoscono né la lingua, né la storia, né le leggi.

Ben diversa normalmente la legislazione di stati nati e cresciuti grazie all’immigrazione – come gli U.S.A. - che, per motivi speculari a quelli ricordati prima, accordano la cittadinanza in base allo ius soli: chiunque nasca in quella nazione ne è automaticamente cittadino.

Ora, come già accaduto in altri paesi che hanno conosciuto importanti flussi di immigrazione nella seconda metà del XX secolo, anche in Italia si è prospettata la possibilità di concedere la cittadinanza in base a uno ius soli temperato: i figli di immigrati stabilmente in Italia da almeno cinque anni – nati in Italia o arrivati in tenera età – avrebbero acquisito la cittadinanza italiana al termine del ciclo scolastico elementare (verso gli 11 anni), anziché attendere la maggiore età (18 anni) per avviare un lungo e complicato iter burocratico. Lo ius soli avrebbe consentito non solo simbolicamente all’immigrato di avere una nuova “terra” dopo lo spaesamento dalla propria.

Il progetto di legge fu approvato dalla Camera dei Deputati, ma in occasione della votazione finale in Senato (2017) il dibattito si infiammò a tal punto – dentro e soprattutto fuori dal Parlamento – che la legge non venne più messa ai voti e quindi non fu approvata prima della fine della legislatura. Così circa 800.000 bambini, ragazzi e adolescenti perfettamente integrati, che parlano solo italiano, che vivono, giocano, studiano con i loro coetanei italiani continuano a non essere cittadini del loro paese e a non godere degli stessi diritti dei loro compagni di tutti i giorni.

I toni della discussione si rivelarono ben presto accesissimi e sovente marcatamente razzisti, così che lo strumento giuridico dello ius sanguinis si è rapidamente trasformato da salvaguardia per un popolo di migranti a incentivo per un imbarbarimento razziale se non addirittura tribale.


Un paese ancora cattolico?

In questa occasione è emerso in modo evidente un fenomeno avviatosi da alcuni decenni: il venir meno del connotato marcatamente cattolico della popolazione italiana. Alcuni dati statistici sembrerebbero indicare la tenuta di questo tessuto connettivo tradizionale: la scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, così come le indicazioni per devolvere a favore della Chiesa cattolica una percentuale dell’imposta sui redditi restano ancora largamente maggioritarie, forse anche a motivo di mancanza di alternative convincenti. D’altro canto però il numero dei praticanti regolari, dei matrimoni religiosi, dei battesimi, delle vocazioni al presbiterato e alla vita religiosa ha conosciuto un crollo assai vistoso.

Ma ancor più preoccupante è il progressivo abbandono del riferimento alla Chiesa e alla dottrina sociale cattolica nella vita e nelle scelte quotidiane. I laici cattolici presenti in politica, principalmente attraverso il partito della Democrazia cristiana – determinanti non solo nella rinascita post-bellica e nella stesura della Costituzione della Repubblica italiana, ma anche nel governo del paese e nel riflessione culturale per oltre cinquant’anni – sono stati afflitti da una progressiva afonia, favorita anche da due decenni in cui i vertici della gerarchia cattolica italiana hanno privilegiato interventi diretti e costanti nel dibattito politico. Analogamente il focalizzarsi in battaglie pubbliche su alcuni “valori non negoziabili”, importanti ma non esaustivi in quanto limitati a questioni relative alla nascita, alla morte e alla sessualità, è andato a detrimento di una sollecitudine per l’insieme dei bisogni degli abitanti del paese – italiani e stranieri – e di un approccio non individualista ma solidale alle problematiche sociali. Così la carità operosa e intelligente, il fattivo prodigarsi per i poveri e gli ultimi è stato delegato alla Caritas, all’associazionismo del volontariato, a gruppi marginali all’interno delle parrocchie e a comunità religiose profetiche: la generosità quotidiana di tanti cattolici pronti a collaborare con uomini e donne “di buona volontà” di diversa o nessuna appartenenza religiosa è diventata agli occhi della maggioranza della popolazione, anche di matrice cattolica, una manifestazione di fissazione o sensibilità personale. Si è addirittura coniato il termine spregiativo di “buonismo”, una sorta di bontà smodata e fuori luogo, quasi che l’amore del prossimo fosse una degenerazione di cui diffidare.

E tutto questo a partire proprio dalle aree del paese storicamente segnate da un più diffuso cattolicesimo popolare, quelle che probabilmente hanno indotto molti degli stessi pastori a mancare di lungimiranza, ritenendo erroneamente che lo “zoccolo duro” della cultura cattolica avrebbe comunque resistito alle tentazioni della mondanità sempre più diffusa e alla rarefazione dell’annuncio radicale delle esigenze evangeliche.

I cattolici identitari e le esigenze del Vangelo

Così oggi il fenomeno dell’immigrazione ha messo in evidenza una dicotomia sempre più marcata nel mondo cattolico e nella società italiana, una contrapposizione quotidiana tra quelli che Enzo Bianchi definisce “i cristiani del campanile” e “i cristiani del Vangelo”10. Potremmo chiamarli anche “cattolici della facciata” identitaria e “cristiani della sequela”.

I primi paiono tesi a ostentare un attaccamento alle apparenze di una cultura identitaria cattolica e incuranti della totale incoerenza dei loro comportamenti rispetto al dettato evangelico: si conformano alla mentalità mondana strumentalizzando simboli religiosi ridotti a feticci. Emblematico in questo senso il segretario di un partito politico che fino a pochi anni fa inneggiava a mitologiche divinità fluviali, mostrava disprezzo per le popolazioni del meridione e propugnava la secessione del Nord Italia. Nei recenti comizi elettorali per il Parlamento italiano prima e quello europeo poi, quest’uomo politico ha usato sistematicamente una copia del Vangelo e una corona del rosario per rivendicare un’identità cattolica, incurante del fatto che al contempo i suoi sostenitori dileggiassero apertamente papa Francesco e i vescovi della Chiesa italiana, disattendendone i richiami evangelici e gli orientamenti pastorali. Divenuto poi ministro nel governo nazionale ha sistematicamente contrastato ogni pratica di accoglienza dei profughi e dei richiedenti asilo e ha orchestrato attraverso i social media vere e proprie campagne di odio contro gli stranieri e chi si prende cura di loro, fino a far approvare una legge – per la cui votazione favorevole ha persino ringraziato l’intercessione della Vergine Maria – che criminalizza chi presta soccorso ai naufraghi e limita pesantemente la libertà di manifestazione del dissenso.

Sono così aumentati esponenzialmente gli episodi di intolleranza xenofoba e le violenze di chiara impronta fascista e razzista ad opera sì di frange minoritarie e di “cani sciolti”, che tuttavia sentono di poter godere della comprensione e del supporto di una fetta consistente della popolazione italiana. Perfino alcuni amministratori pubblici locali hanno attuato disposizioni discriminatorie nei confronti dei non italiani, palesemente in contrasto non solo con l’etica cristiana ma anche con il dettato costituzionale. Molti ‘cattolici della facciata’ condividono queste scelte ed esternano la loro intolleranza apertamente o sui social nei confronti dei profughi e dei migranti.

I “cristiani della sequela”, invece, come molti discepoli di Cristo di ogni tempo e di ogni luogo, sono consapevoli dei propri limiti, cadono costantemente nel cammino dietro al loro Signore, ma si rialzano e riprendono la strada della conversione, cercando di conformare ogni giorno le loro povere vite a quella di Gesù Cristo e alle esigenze poste dal Vangelo. La pacifica, ostinata resistenza di questi uomini e queste donne – semplici battezzati di ogni età e classe sociale, presbiteri, religiose, vescovi – tiene accesa, nonostante tutte le loro contraddizioni, la fiaccola del Vangelo in un paese che, come tale, ormai può essere definito “post cattolico”.

In questa faticosa ricerca di fedeltà quotidiana al Vangelo, molti cristiani sono ricondotti costantemente dal magistero in parole e azioni di papa Francesco all’essenziale del vissuto della loro fede: restare saldamente attaccati alle parole di Gesù, al suo operare e al suo narrare il volto misericordioso del Padre. In questo senso, di fronte alla degenerazione civile dell’Italia, il Vescovo di Roma – che pur incontra diffidenza se non ostilità da una parte degli stessi fedeli cattolici – è divenuto punto di riferimento e fonte di speranza anche per molti non credenti, uomini e donne “di buona volontà” che ostinatamente difendono la dignità di ogni essere umano.

 


 

1 “Che barbaro costume ci impedisce di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia? Perché farci guerra? Se avete in poco conto il genere umano e le armi degli uomini, temete almeno gli Dei che ricordano e giudicano il bene e il male”, Publio Virgilio Marone, Eneide, Libro I, 520-574.

2 “Vi lascerò partire sicuri, vi aiuterò con ogni mezzo, tanto che vogliate cercare la grande Esperia e le terre sacre a Saturno, quanto vogliate dirigervi ai lidi d’Erice, dal re Aceste. Se poi volete fermarvi nel mio regno, sappiate che questa nuova città è vostra: tirate a secco le navi, non farò nessuna differenza tra Punici e Troiani”, Ivi.

3Giovanni Sale, “Il Manifesto della Razza del 1938 e i cattolici” in La Civiltà cattolica, Quaderno 3793, Anno 2008, Vol. III, pp. 11-24. Su questo esauriente articolo mi baserò per il presente punto della trattazione.

4Ripreso nel primo numero di una pubblicazione periodica appositamente avviata: “La difesa della razza”, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2.

5Giovanni Sale, art. cit.

6 Regio Decreto – Legge 15 novembre 1938 - XVII, n. 1779, avente come titolo “Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola Italiana”.

7 Art. 1. A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica [...]

Art. 2. Delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti non possono far parte persone di razza ebraica.

Art. 3. Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica. È tuttavia consentita l'iscrizione degli alunni di razza ebraica che professino la religione cattolica nelle scuole elementari e medie dipendenti dalle Autorità ecclesiastiche.

8 Manconi Luigi, “Contro il luogo comune dell’uomo nero” in La Repubblica, 28 luglio 2019.

9 Ivi.

10Come si comporta la Chiesa di fronte alla crescita di ‘cristiani del campanile’ che, invocando i valori cristiani come identitari, smarriscono il messaggio evangelico e arrivano a osteggiare ogni forma di accoglienza dei migranti? Cosa fa la Chiesa per convertire questi ‘cristiani del campanile’ e renderli ‘cristiani del Vangelo’? Il fenomeno è preoccupante e la contestazione degli atteggiamenti caritatevoli della Chiesa verso i migranti dovrebbe interrogare i pastori di queste comunità cristiane che hanno potuto crescere fuori dall’egemonia del Vangelo”, Vita pastorale, giugno 2018.