Ecumenical Prayer Cycle

sabato 11 novembre 2017

Fuoco e ceneri

Tradizione è conservare il fuoco, non adorare le ceneri”.
Penso sovente a questa frase di Gustav Mahler quando sento parlare, a proposito e a sproposito, della “messa di sempre” o della “immutabile dottrina cattolica”, quando sento ripetere che “si è sempre fatto così”. In realtà il “sempre” si estende al massimo per quattro o cinque secoli, rispetto ai due millenni che ci separano dalla nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Se al “sempre” si aggiunge anche l’“ovunque”, ci si riferisce solo al mondo “occidentale” e alle sue estensioni al di qua e al di là degli oceani.

Non so in che contesto si collocasse l’aforismo di Mahler, così come ignoro a chi si riferisse Charles Péguy quando, nella sua Note conjointe sur Monsieur Descartes, così scriveva: Non basta abbassare ciò che è temporale per elevarsi nella categoria dell’eterno. Non basta abbassare la natura per levarsi nella categoria della grazia. Non basta abbassare il mondo per salire nella categoria di Dio. […] Siccome non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura, credono di essere della grazia. Siccome non hanno il coraggio del temporale, credono di aver penetrato l’eterno. Siccome non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Siccome non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Siccome non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Siccome non amano nessuno, credono di amare Dio. Ma Gesù Cristo stesso è stato dell’uomo”.


Non conosco i primi destinatari di questi pensieri, conosco però, e credo di non essere l’unico, a chi oggi si possono applicare queste parole di sapienza evangelica.

venerdì 3 novembre 2017

4 novembre La pace come brezza leggera

99 anni anni fa finiva per l’Italia la I guerra mondiale.
Quando ero piccolo questa data era ricordata come “Anniversario della vittoria”. Ma “dov’è la vittoria”? Come si può chiamare “vittoria” una “inutile strage”? Visitando anche ieri il cimitero di Magnano ho ricontato i 46 cippi di giovani caduti nel conflitto del “15-18”. Quarantasei morti su una popolazione complessiva di 1.841 abitanti (censimento del 1911)! E percentuali simili si ritrovano in tanti, troppi Comuni italiani.




Personalmente ho anche conosciuto diversi “Cavalieri di Vittorio Veneto” e da nessuno di loro ho mai ascoltato parole enfatiche sulla “vittoria”: sempre e solo ricordi di sofferenze, di compagni morti e feriti, di gesti eroici compiuti non per uccidere un maggior numero di nemici bensì per cercare di salvare commilitoni in difficoltà. Per loro l’anniversario celebrava la “fine della guerra”, non la “vittoria”.

Poi, man mano che l’Europa veniva sanando le laceranti ferite dei due conflitti mondiali, il 4 novembre in Italia era celebrato come “Festa delle Forze armate”. Ma come dimenticare che la I guerra mondiale è stata anche l’ultima in cui il numero dei morti tra i combattenti è risultato maggiore quello dei civili? In seguito le “forze armate” hanno sempre subìto meno perdite dei “deboli disarmati”.
Al cimitero militare americano di Nettuno, papa Francesco ha recentemente pronunciato parole dure contro la guerra, “strage inutile”, “distruzione di noi stessi”. "Quando tante volte nella storia gli uomini pensano di fare una guerra sono convinti di portare un mondo nuovo, di fare una primavera, e, invece, finisce in un inverno, brutto, crudele, il regno del terrore”.
Sì, la guerra è il crudele inverno dell’umanità.

                                       


A tutti i caduti di tutte le guerre (mai giuste, sempre inutili): quelle finite e quelle in corso, quelle mondiali e quelle “a pezzetti”, “a puntate”, “su commissione”… A chi è caduto con onore e a chi è stato fucilato con disonore, agli “uomini contro” e alle donne rimaste sole, alle persone calcolate come “effetti collaterali” e ai bambini-soldato dedico queste riflessioni sulla pace, tratte da un mio contributo a un volume collettivo di prossima uscita in inglese sul Pellegrinaggio di Giustizia e Pace promosso dal Consiglio ecumenico delle Chiese.


Rispetto per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano, per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti” – non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14). Sì, per i credenti nel Dio di Abramo e di Gesù di Nazaret, il tema della pace non appartiene primariamente all’ordine etico, morale o sociale – e tanto meno all’ambito strategico o tattico – ma è essenzialmente di ordine rivelativo, sta nello spazio della fede, ha valenza cristologica: narra in quale Dio noi crediamo, manifesta di quale Signore siamo discepoli. E questo non soltanto perché la pace è legata alla venuta del Messia, ma perché in riferimento a Cristo Signore essa riceve la pienezza del suo significato e trova un criterio di giudizio.
In un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non coinvolgimento nelle opere del potere e della forza, nelle opere del principe di questo mondo. E similmente avviene ancora oggi là dove la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la solidarietà dei poveri e degli operatori di pace. Si pensi, per esempio, alla chiesa d’Algeria e ai suoi martiri, come i sette monaci trappisti che, prima di essere rapiti e uccisi da chi pretendeva di “agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam”, così pregavano quotidianamente: “Signore, disarmali! Signore, disarmaci!”. Sì, ancora oggi verrebbe da ripetere con il salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal 120,6-7).
La pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa, quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non “scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.