Ecumenical Prayer Cycle

giovedì 19 settembre 2019

Abuna Matta el Meskin a 100 anni dalla nascita

Il 20 settembre 2019 ricorrono i cent'anni dalla nascita di Abuna Matta el Meskin, padre spirituale del monastero copto di San Macario (Deir Abu Makar) nel deserto egiziano.
Per esprimere la mia gratitudine al Signore per avermi fatto il dono di potermi ispirare al suo magistero spirituale, ripropongo il testo del mio intervento alla giornata dedicata a
"Matta el Meskin a 10 anni dalla sua dipartita"
svoltasi ad Alessandria d'Egitto il 28 luglio 2016, su iniziativa del vescovo Anba Epiphanius, discepolo di Abuna Matta el Meskin e allora superiore di Deir Abu Makar. 

Questo testo vuole anche onorare la memoria dell'amato Anba Epiphanius, tragicamente scomparso proprio due anni dopo quella giornata di intensa spiritualità.



MATTA EL MESKIN A 10 ANNI DALLA DIPARTITA

Alexandria, Egitto, 28 luglio 2016
Intervento di fr. Guido Dotti, monaco di Bose
Desidero innanzitutto esprimere la mia profonda gratitudine al Signore per avermi fatto il dono di essere in mezzo a voi oggi. È il Signore Gesù Cristo che ci raduna oggi, uniti nell’ascolto della sua Parola e della luminosa testimonianza offerta dal suo discepolo abuna Matta el Meskin. E la mia gratitudine va anche agli organizzatori, che hanno voluto che aggiungessi la mia povera voce a quella di persone che hanno conosciuto e amato abuna Matta ben più di quanto abbia potuto farlo io.
Inizierò confessandovi confessare una verità che alcuni di voi conoscono bene: io non ho mai incontrato abuna Matta. Non l’ho incontrato durante il mio primo soggiorno di otto giorni a Deir Abu Makar nel 1985, non l’ho incontrato quando ci sono ritornato nel 1997. Non l’ho mai incontrato, eppure credo di poter dire che l’ho sempre conosciuto, da quando ho iniziato il mio cammino monastico a Bose quasi 45 anni fa. L’ho conosciuto perché ne ho letto alcuni scritti già nel 1972: ero da poco entrato come novizio nel Monastero di Bose e fr Enzo Bianchi, il priore, mi diede tra i testi da leggere un articolo di abuna Matta che aveva come titolo (in italiano) Ecumenismo o coalizione?, dicendomi: “Ecco, questo è l’ecumenismo come tentiamo di viverlo a Bose e questo è il monachesimo del deserto egiziano a cui ci ispiriamo!”.

Come emerso durante i giorni nel Convegno che il mio Monastero di Bose ha dedicato ad abuna Matta el Meskin lo scorso mese di maggio, quell’articolo – che in francese aveva il titolo Unité chrétienne – era stato anche all'origine del primo incontro tra il suo futuro discepolo Wadid e abuna Matta el Meskin a Wadi Rayyan...
Nell’ottobre del 1985 ebbi il grande dono di poter trascorrere alcuni giorni a Deir Abu Makar. Come accaduto anni prima al priore fr Enzo Bianchi, non potei incontrare abuna Matta, convinto nella sua umiltà che “solo l’incontro con il Signore resta fondamentale per ogni cristiano e per ogni monaco”. Ma lo spirito che lo animava mi giunse attraverso il vissuto dei suoi monaci – parabola vivente di cosa significa la sequela cristiana nella via monastica – e per me in particolare grazie ai dialoghi fraterni con fr. Wadid, uomo di pace e di accoglienza, capace allora come oggi di trasmettere a quanti lo accostano l’intensa ricerca della comunione nell’amore che arde in lui come ardeva nel suo padre spirituale.
Da quel primo incontro, che era stato preceduto da una visita del mio priore fr. Enzo, sia io che altri miei fratelli siamo tornati più volte a Deir Abu Makar, per confrontarci con una testimonianza monastica che ci riporta all’essenziale della nostra vocazione, per abbeverarci alle sorgenti del monachesimo cristiano e per cercare di leggere insieme ad altri fratelli nella fede “ciò che lo Spirito Santo dice alle chiese”. Non solo, l’anno successivo con la nostra casa editrice nata solo tre anni prima, decidemmo di iniziare a pubblicare in italiano alcuni scritti di abuna Matta el Meskin: l’antologia Communion of love uscita in USA ci servì da riferimento per assemblarne una con il medesimo titolo in italiano, nella quale però inserimmo altri testi, a cominciare dall’articolo sull’unità dei cristiani ricordato prima. Mi occupai della traduzione dall’inglese e dal francese (non conosco infatti l’arabo, come potete costatare voi stessi), ma traducendo mi nutrivo spiritualmente di quei testi. In particolare vorrei ricordare il capitolo dedicato a Come leggere la Bibbia che sembrava ai miei occhi ridire con le parole e l’approccio proprio dei padri del deserto quello che avevo imparato a Bose circa la lectio divina, la lettura spirituale della sacra Scrittura, grazie al libro di fr Enzo Bianchi, Pregare la parola. Due anni dopo (1988) fu la volta della traduzione e pubblicazione del fortunatissimo Consigli per la preghiera che univa due testi, usciti l’uno in francese e l’altro in inglese. Anche questo è diventato per me un libro-guida che mi ha accompagnato nel mio cammino monastico.
Come vedete, il cammino che ci ha condotto a organizzare un Convegno su abuna Matta a Bose ha origini molto lontane, ma ha iniziato a diventare progetto concreto con la visita di S.S. papa Tawadros a Bose il 16 maggio 2013 (giorno successivo alla memoria di san Pacomio nel nostro calendario liturgico), accompagnato da Anba Kyrolos di Milano e da altri Vescovi, tra cui Anba Epiphanius, discepolo e successore di Matta el Meskin alla guida di Deir Abu Makar.



Lì una profonda consonanza spirituale ha avuto il dono di potersi manifestare in sguardi, parole, scambi fraterni. Così, quando Anba Epiphanius è tornato a Bose lo scorso settembre per tenere una conferenza al nostro Convegno internazionale ortodosso dedicato alla Misericordia, è stato naturale progettare assieme a lui e con la benedizione di papa Tawadros il Convegno dedicato a Matta el Meskin. In quell’occasione Anba Epiphanius non ha solo presentato la dottrina di abuna Matta sulla misercordia, ma ha parlato a noi monaci di Bose da cuore a cuore, come un amico parla a un amico, ci ha fatto sentire fratelli e sorelle suoi e dei monaci di Deir Abu Makar, in qualche modo, anche se indegnamente, discepoli di abuna Matta.


Vorrei allora riprendere alcune parole pronunciate da fr Enzo Bianchi in occasione del già menzionato Convegno che il Monastero di Bose ha voluto dedicare a Matta el Meskin a dieci anni dal suo passaggio dalla morte alla Vita. Le riprendo perché esprimono come io non saprei fare quello che io stesso ho sperimentato e sperimento ancora ogni volta che ho la grazie di poter tornare a Deir Abu Makar e ora anche di dialogare con l’amato Anba Epiphanius.
Dagli incontri fraterni con i monaci di San Macario è sempre emersa in tutta la sua trasparenza una vita che ha come fondamento il nutrimento quotidiano della parola di Dio, unico cibo che sostiene la speranza del regno di Dio. «Quando chiesi a Matta el Meskin di insegnarmi a pregare – mi confidò una volta un monaco – l’abba mi disse di dargli la mia Bibbia. Aprì il libro, cercò l’inizio della Lettera agli Efesini, si alzò, levò gli occhi al cielo, lesse ad alta voce il primo versetto, tacque, ripeté due volte ogni parola, poi rilesse tutto daccapo. Passò al versetto seguente, alzò la voce, supplicò Dio di perdonarlo, canticchiò il versetto, la ripeté a bassa voce, alzò le mani, pianse... E fece così fino alla fine del capitolo. Si era completamente dimenticato della mia presenza accanto a lui!».
Ma la Scrittura giunge attraverso una tradizione ed è per questo che – accanto ad essa – i detti degli abba del deserto e le opere dei padri della chiesa sono per i monaci di Scete cibo quotidiano nella lettura, nello studio, nella contemplazione. Così era solito ripetere abuna Matta: «Quando leggiamo un apoftegma, a noi deve accadere questo: prima lo Spirito ci convince che la loro esperienza è vera, poi dobbiamo lottare per fare nostra questa loro esperienza, perseverando nella lotta fino alla morte, cioè pronti a morire per rimanere fedeli al comandamento che lo Spirito ci ha dato … Se il monaco, prima ancora di ricevere l’abito, è pronto a rimanere incondizionatamente fedele, fino alla morte, se non ha paura della morte, allora la sua vita monastica sarà spiritualmente riuscita. Ma se teme per il suo corpo, se rifiuta di correre rischi, allora la sua vita monastica sarà molto penosa. Peggio ancora: sarà assai difficile per lui essere trasformato dallo Spirito in un uomo nuovo».
Ma c’è un elemento che mi sento di dover aggiungere in modo molto personale. Quando vado a Deir Abu Makar, sono attirato in modo particolarissimo dalle reliquie di Giovanni Kolobos, il padre del deserto che più mi è caro e lì, nella chiesa di Anba Ischerion, chiusi gli occhi e raccolto in preghiera, mi sembra di ritrovarmi nel IV secolo, in mezzo a quegli abba che hanno trasformato la loro vita in una pagina vivente di Vangelo.
Un’esperienza analoga l’ho provata nel 2007, quando ho guidato un gruppo di 37 monachi e monache cattolici della Africa occidentale francofona in un pellegrinaggio nei monasteri copti, abbiamo avuto il dono di ascoltare una meditazione di abuna Wadid su Macario il Grande. Ebbene, ascoltandolo mentre parlava di san Macario il Grande, del suo discernimento e della sua misericordia, non avrei saputo dire se stesse parlando del grande padre del deserto e di abuna Matta: nel mio cuore non scorgevo differenze.


Per questo non mi ha sorpreso il fatto che in Italia, quando si diffuse la notizia della scomparsa di Matta el Meskin, vi fu chi parlò della morte di un “padre del deserto”. In realtà la vicenda umana e cristiana di questo monaco conclusasi nella pace dopo ottantasei anni è stata ed è la prova che il monachesimo dei padri del deserto è ancora vivissimo e fecondo. Così, grazie alla sua saldezza nella fede e all’indomita speranza nella risurrezione, abuna Matta riposa ora là dove il suo cuore ha sempre desiderato essere: nella pace di Dio.
Una pace di cui il “giardino” di San Macario è anticipazione e promessa.
Shukran شكرا








giovedì 18 aprile 2019

Ecumene 4 - Diaspora/Costantinopoli


Proseguendo la collaborazione con Luoghi dell'Infinito, supplemento mensile di Avvenire, nella puntata di aprile della rubrica Ecumene ho cercato di leggere la diaspora dei cristiani, presenti in molti paesi come piccole minoranze, come opportunità ecumenica per lo stare nel mondo come fratelli e sorelle in umanità.




“Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono della diaspora, salute!” (Gc 1,1). Questo primo versetto della Lettera di Giacomo contiene il nucleo essenziale della questione della “diaspora”, oggi particolarmente cogente nel dialogo ecumenico. Vi è innanzitutto l’origine giudaica della realtà e della categoria della diaspora, cioè della dispersione dei credenti in terre e regioni lontane dalle radici in cui affonda la fede nel Signore Dio. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’Impero Romano nel 70 d.C., gli ebrei, già presenti almeno nelle principali città del bacino mediterraneo a cominciare da Alessandria d’Egitto, si videro costretti a una diaspora che potesse garantire loro la sopravvivenza come comunità di credenti nel Dio dei padri. È a queste comunità che gli apostoli di Gesù Cristo portarono in primo luogo l’annuncio evangelico, creando così “le dodici tribù nella diaspora” (ricalcate sulle dodici tribù di Israele) a cui Giacomo rivolge le proprie cure pastorali. L’accezione negativa di dispersione dovuta a una fuga obbligata inizia ad assumere i connotati positivi di una seminagione feconda, secondo l’immagine delle spore di un fiore disseminate dal vento.
La successiva e rapida diffusione del Cristianesimo anche in territori esterni ai confini dell’Impero romano d’Oriente portò già il concilio di Calcedonia (451) ad attribuire al Patriarca di Costantinopoli la giurisdizione sui vescovi in missione in quelle che allora erano chiamate “terre dei barbari”, lasciando che un ruolo equivalente per le regioni occidentali venisse svolto dal Vescovo di Roma, patriarca d’Occidente.
Nel corso dei secoli questa cura pastorale per i fedeli ortodossi in terre al di là dei confini dell’Impero, nel frattempo scomparso, portò progressivamente alla creazione di chiese autocefale corrispondenti alle diverse aree geografiche e linguistiche, anche per sopperire alle condizioni di minor libertà di azione cui si era storicamente venuto a trovare il Patriarcato di Costantinopoli.
Tuttavia il fenomeno migratorio iniziatosi alla fine del XIX secolo ha riprodotto la situazione della “diaspora” e le relative esigenze pastorali, acuendo il problema di quale Chiesa avesse competenza – quindi diritto e responsabilità – per la cura dei fedeli emigrati appartenenti originariamente a una Chiesa ortodossa autocefala: quest’ultima oppure il Patriarcato di Costantinopoli?
Così il retto principio ecclesiologico stabilito dai primi concili ecumenici di avere un solo Vescovo in una città (fissato a Nicea) e un solo Metropolita per provincia ecclesiastica (affermato a Calcedonia) ha subito e subisce costantemente molteplici eccezioni, anche se sempre motivate dalla sollecitudine per i bisogni spirituali dei fedeli.
Al di là delle soluzioni più o meno condivise e nonostante le tensioni che suscita – anche a motivo del suo frequente intrecciarsi con ragioni socio-politiche più o meno esterne alla Chiesa stessa – la questione della diaspora cristiana mostra ancora tutta la sua potenzialità ecumenica: la “dispersione” dei cristiani in mezzo ai loro fratelli e sorelle in umanità saprà dare vita a Chiese locali dal respiro autenticamente universale e capaci di testimoniare – al di là delle differenze di lingua e cultura – quell’unità voluta da Cristo per i suoi discepoli?

giovedì 21 marzo 2019

Ecumene 3 - Confessione / Augsburg

Terza puntata della rubrica Ecumene, dove parlo di Confessione (di fede) e della dieta imperiale di Augusta (Augsburg, 1530), quando fallì il tentativo di comprensione reciproca e di riconciliazione tra i rappresentanti del Papa e i Riformatori.





Quando un cattolico della mia età – che ha ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana a concilio Vaticano II annunciato ma non ancora aperto – sente la parola confessione, pensa immediatamente al sacramento della penitenza o riconciliazione e si ricorda dello stupore con il quale apprese che un santo come “Edoardo III il confessore” non aveva trascorso nemmeno un’ora della sua vita in confessionale ad ascoltare i penitenti, ma aveva piamente regnato nell’Inghilterra del turbolento XI secolo.
Sì, perché il significato primario di “confessione” è la proclamazione della fede, non l’enunciazione dei propri peccati. Così, ai partire dai Credo – i simboli di fede dei primi secoli ancor oggi in uso nelle liturgie cristiane – “confessio” diviene il coagularsi nel corso della storia dell’insieme di affermazioni e modalità che ogni Chiesa utilizza per manifestare la propria fede in Gesù Cristo attraverso una specifica identità ecclesiale. Una famosa caratterizzazione di questo significato lo troviamo nella “Confessione augustana” del 1530, quando Melantone redasse una serie di principi del nascente protestantesimo perché fosse discussa nella dieta imperiale di Augusta (Augsburg) e si verificasse la possibilità della ricomposizione del conflitto con Roma. Da quella mancata riconciliazione si sono via via moltiplicate le diverse “confessioni” di fede, tese più a caratterizzare elementi specifici e sovente contrapposti che non a sottolineare la comune ricerca di seguire il Signore sotto la guida del Vangelo.
Il cammino ecumenico da oltre un secolo cerca di ritrovare l’unità dei cristiani di varie “confessioni” proprio attraverso la riscoperta e la riaffermazione che l’identità cristiana basilare (essere cioè discepoli di Gesù Cristo, morto e risorto per la salvezza dell’umanità intera) fonda l’identità ecclesiale (l’essere membra del corpo di Cristo grazie al battesimo ricevuto nel nome della santa Trinità in una specifica Chiesa) e motiva ogni particolare identità confessionale (il riconoscersi qui e ora in una particolare confessione cristiana inserita nell’oggi della storia).
Più i cristiani saranno disposti a rinunciare agli aspetti non essenziali della confessione cristiana attraverso la quale sono stati generati a Cristo, più risplenderà davanti agli uomini l’unità voluta da Cristo. Non si tratta certo di “sconfessare” la propria Chiesa, bensì di assumere verso i cristiani di altre confessioni lo sguardo evangelico richiamato dal concilio Vaticano II: “Quelli che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali Comunità [che si staccarono dalla piena comunione della Chiesa cattolica], non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Quelli infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto debitamente il Battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. […] Nondimeno, giustificati nel Battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti quali fratelli nel Signore” (Unitatis redintegratio 3).

Questo sguardo che va oltre le divisioni confessionali e si fissa sull’unico Signore della Chiesa è la vocazione e la responsabilità del movimento ecumenico.



Ecumene 2 - Missione / Edimburgo

La seconda puntata della mia rubrica Ecumene sul mensile Luoghi dell'Infinito, in edicola ogni primo martedì del mese assieme al quotidiano Avvenire affronta il termine Missione e lo collega a Edimburgo dove nel 1910 la Conferenza missionaria mondiale pose le basi per quello che sarebbe diventato il Consiglio Ecumenico delle Chiese




Fino a non molto tempo fa – e ancora oggi in alcuni ambienti ecclesiali – l’accostamento tra “ecumenismo” e “missione” era visto come inconciliabile alternativa: “ecumenismo o missione”. Eppure fu proprio lo scandaloso impatto della divisione tra i cristiani nelle terre allora definite “di missione” a innescare, oltre un secolo fa, i primi tentativi di dialogo tra le Chiese. Alla Conferenza missionaria di Edimburgo del 1910, infatti, numerosi rappresentanti di diverse denominazioni protestanti posero le basi del movimento ecumenico. I rispettivi missionari avevano toccato con mano quanto fosse controproducente per l’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo il fatto che ciascuna Chiesa lo proclamasse contrapponendosi o comunque “in concorrenza” con le altre.
Nel corso dell’ultimo secolo poi, il significato dei termini e l’estensione dei rispettivi ambiti di applicazione hanno subìto profondi mutamenti: destinatari della missione cessano di essere soltanto le popolazioni di terre lontane dove il Vangelo non era mai stato proclamato e diventano anche tanti battezzati che hanno abbandonato la pratica cristiana o le masse che abitano le periferie urbane ed esistenziali. Anche la riflessione sull’ecumenismo subisce influenze dalle circostanze storiche e sociali: basti pensare al relativamente recente fenomeno migratorio intra-europeo che mette in contatto quotidiano numeri significativi di fedeli di diverse tradizioni cristiane.
Ecumenismo e missione si avviano così a non essere più elementi “accessori” della vita della Chiesa, ma a costituire un prezioso intreccio radicato nell’insegnamento stesso di Gesù: la sua preghiera al Padre affinché i suoi discepoli “siano una cosa sola” implica infatti esplicitamente il fine cui questa unità tende e il frutto che essa produce: “perché il mondo creda” (Gv 17,21). Così l’esortazione che Gesù rivolge ai suoi discepoli assume la più alta valenza missionaria: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).
Forse è venuta l’ora, in questa nostra epoca di definitivo tramonto della cristianità, di riscoprire la portata evangelizzatrice della testimonianza – che sempre più spesso giunge fino all’offerta della propria vita, in quell’“ecumenismo del sangue” costantemente evocato da papa Francesco – resa da cristiani di diverse confessioni che si riconoscono fratelli e sorelle e che camminano insieme verso la piena unità visibile. In questo pellegrinaggio che conosce ancora pause e rallentamenti, sono di conforto le parole di papa Giovanni XXIII riprese in Ut unum sint: “Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: "È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide"” (UUS § 20). In questo spirito potremmo osare spingerci ancora più in là: non solo ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide, ma Colui che ci unisce, il Cristo, è più forte di colui che ci divide, il Diabolos, il Divisore. Alle nostre Chiese, a ciascuno di noi spetta allora questa scelta decisiva per la “corsa della Parola” (cf. 2 Tess 3,1) in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo e al cuore delle nostre società.




Ecumene - Parole e Luoghi

Dal mese di gennaio ho iniziato a tenere una rubrica sul mensile Luoghi dell'Infinito, in edicola ogni primo martedì del mese assieme al quotidiano Avvenire.
Ho pensato di scegliere 11 parole per narrare l’ecumenismo e la ricerca dell’unità visibile dei cristiani
e di accostare loro 11 luoghi che quei termnini possono evocare. Un modo per dare "luogo" all'u-topia (il non-luogo) dell'unità dei cristiani.
Potete qui trovare i testi man mano che vengono pubblicati sul mensile.
Il primo termine non poteva che essere "Unità" e il luogo "Gerusalemme"





Gerusalemme è costruita come città unita e compatta” canta il Salmo 122,3 e gli fa eco un altro: “di Sion sarà proclamato: ‘Ogni uomo è nato in essa; l’Altissimo, lui stesso, la tiene salda’. Il Signore scrive nel libro dei popoli: ‘Costui è nato là!’, ma tutti danzeranno cantando: ‘In te, [o Sion,] le nostre fonti!’” (Sal 87,5-7). E Giovanni, il Veggente di Patmos, profetizza: “E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21,2).
È da qui, dalla Gerusalemme celebrata nei Salmi, dalla nuova Gerusalemme prefigurata nell’Apocalisse, che deve prendere avvio ogni riflessione sull’unità dei cristiani. Ed è nella Gerusalemme storica che i primi discepoli di Cristo, riuniti attorno a Maria nella Camera alta il giorno della Pentecoste, ricevono lo Spirito che farà di loro “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32): è “cominciando da Gerusalemme” che “nel nome di Gesù saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (cf. Lc 24,47).
Sì l’unità “dei cristiani” – non “della Chiesa”, che non ha mai cessato di essere “una, santa cattolica e apostolica” – si fonda sull’unità dei discepoli che si ritrovano dopo lo sgomento, il rinnegamento, l’abbandono e la dispersione con cui avevano reagito alla fine delle loro speranze segnata dalla passione e morte del loro Maestro e Signore (cf. Lc 24,21).
Quando ripensiamo alle vicende della Chiesa nei due millenni nei quali si sono dispiegati “ questi giorni che sono gli ultimi” (cf. Eb 1,2) siamo tentati di dire che l’unità dei cristiani va ricercata nonostante un passato di divisioni, di scandalosa contraddizione della volontà del Signore. Ma più in profondità e in verità, dietro a noi sta l’unità visibile dei credenti in Cristo, quella stagione che nel cuore e nella mente di Dio non ha mai fine e nella quale “Non c'è giudeo né greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). 
Il nostro futuro di cristiani ancora separati, ancora capaci di infliggerci reciprocamente la ferita della mancanza di unità visibile, ancora infedeli al loro Signore al punto di offrire al mondo la controtestimonianza della divisione, il nostro futuro è determinato da ciò che ci precede, non dal perpetuarsi del nostro peccato. È l’unità che ci precede e ci attende, è l’unità che ci viene incontro ogni volta che ci convertiamo all’unico Signore, è l’unità che suscita, anima e sostiene ogni nostro sforzo per tradurla in parole e opere di comunione.
Interrogarsi sulla nostra distanza dall’unità voluta dal Signore per i suoi discepoli significa interrogarsi su cosa ne abbiamo fatto di quella Gerusalemme, città “visione di pace” che chiama all’unità: oggi la visione che offre Gerusalemme non è di pace ma di guerra, non di unità ma di separazione. Eppure è lì che ha preso vita la Chiesa madre, quella comunità nata ai piedi della croce, dove il Figlio crocifisso ha affidato la Madre al discepolo amato e il discepolo amato – cioè ognuno di noi – alla Madre. È lì, in quel sepolcro vuoto così pieno di senso e custodito nei secoli dalle preghiere di generazioni di cristiani di ogni nazione, etnia, popolo e lingua (cf. Ap 7,9), lì sono le nostre fonti di cristiani, lì il nostro luogo di nascita, lì la nostra saldezza nelle intemperie della vita. Lì il luogo del nostro “ritorno al Signore”, lì la nostra possibilità di conoscere la misericordia del Signore nei confronti del peccato di ciascuno di noi e dello scandalo comunitario della divisione tra i cristiani.


martedì 19 febbraio 2019

La risorsa della differenza

Nell'ultimo numero di Vita Pastorale (febbraio 2019) ho pubblicato una riflessione sulla storia, i rischi e le opportunità del meticciato nella vita religiosa, cioè della presenza di fratelli e sorelle di etnie diverse in un'unica comunità o congregazione.
E' una sfida che può riverlarsi preziosissima risorsa, non solo per la vita religiosa o per la chiesa, ma per la società tutta.








lunedì 21 gennaio 2019

Sogni di anziani e di giovani

Leggo sulla benemerita ultrasettantenne rivista cartacea Il Gallo un'accorata lettera di Valentina Bonzi, studentessa universitaria, indirizzata ai "Cari adulti". Ne riporto i paragrafi conclusivi:

Cari adulti ... vi manca il sogno, il più innocente e bel pensiero che ci sia. Non alzatevi la mattina per andare in ufficio, andateci per cambiare l'ufficio, renderlo un posto migliore; guardate gli occhi accesi e curiosi dei vostri figli e imparate a leggere i loro sogni, senza voler riflettere in loro i vostri irrealizzati: quelli sono andati persi, sono appartenuti a voi e non saranno di nessun altro. Chiedo una collaborazione tra noi e voi: a noi, spinti dal nostro sogno, il compito di trasmettervi quella curiosità, quella determinazione e quella fiducia nel futuro; a voi, già realizzati, quello di guidarci in un mondo per noi nuovo e per voi troppo vecchio e monotono. Cambiare gli schemi orientandoci e conoscendo quelli vecchi: ecco l'obiettivo comune, un mondo fatto di uomini e donne che sognano qualcosa di migliore, qualcosa che abbia la priorità assoluta su tutto il resto.




Parole che mi richiamano alla mente quelle di papa Francesco rivolte ai giovani durante il recente Sinodo dei Vescovi a loro dedicato:

C’è un’icona che viene dal Monastero di Bose, che si chiama “la Santa Comunione”, e cioè un monaco giovane che porta avanti un anziano, porta avanti i sogni di un anziano, e non è facile, si vede che fa fatica in questo. In questa immaginetta tanto bella si vede un giovane che è stato capace di prendere su di sé i sogni degli anziani e li porta avanti, per farli fruttificare. Questo forse sarà di ispirazione. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.
Loro, nei sogni, ti diranno anche cosa hanno fatto nella vita; ti racconteranno gli sbagli, i fallimenti, i successi, ti diranno questo. Prendilo. Prendi tutta questa esperienza di vita e vai avanti. Questo è il punto di partenza. 
“Cosa direbbe Lei ai giovani che vogliono avere fiducia nella vita?”: prendi su di te i sogni degli anziani e portali avanti. Questo ti farà maturare. Grazie.