domenica 22 luglio 2018

Seneca Lucilio suo

Qualche anno fa gli studenti del Liceo di Gallarate - che avevo conosciuto in precedenza per un incontro su "Violenza e religioni", su cui magari tornerò in un altro post - mi interpellarono sul tema del suicidio, sul quale avevano riflettuto a partire dalla Lettera LXX di Seneca all'amico Lucilio. Il genere letterario che scelsero fu quello di redigere due lettere come su loro fossero Lucilio e io Seneca, chiedendomi di rispondere a nome del filosofo.
Qui di seguito la risposta.



Epistula LXX bis – MMDCCLXIX a.U.c.

Seneca Lucilio suo salutem
È curioso assai che nell’universo in cui tu ed io siamo sospesi possano trascorrere anni interi senza che ci si incontri. E che al contempo si possano fissare pensieri e parole cum stilo et membrana e farle giungere in un baleno ben oltre ogni limes da noi conosciuto – come le colonne d’ercole o la susa di Alessandro Magno – o quel vallo che Adriano imperatore ha poi costruito nella sempre viva illusione che un muro possa fermare la paura dell’altro.
A proposito di mura e di scrittura, ho saputo da Jorge Luis Borges – un narratore che non esiterei ad accostare ad Omero, e non solo a motivo della comune cecità – che Shih Huang, l’imperatore della lontana Cina che decise di costruire la muraglia magna, fece anche proibire e dare alle fiamme tutti i libri delle epoche precedenti il suo regno… Il nesso tra mura e rogo di papiri mi inquieta, anche perché, come dice Heinrich Heine – l’hai già incontrato? – “Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”.
Ma veniamo agli interrogativi che mi poni, provocato dalla mia epistola in cui con te ragiono ad alta voce della facoltà umana – e solo umana, non dimenticarlo – del darsi la morte. Da quando la scrissi è pur vero che, come dici tu, “tutto è cambiato ma non l’uomo”, ma cambiato è anche lo sguardo sull’uomo. Incuriosito dal tuo accenno, ho voluto incontrare quel Galilei e farmi mostrare il suo artifizio che rende vicino il lontano. Lo stupore mi ha portato a rovesciare lo strumento per capirne il marchingegno: ed ecco che il vicino mi diventava lontano… Ma allora la realtà dipende dagli occhi con cui la guardiamo? E se provassimo a guardarla con gli occhi degli altri? Alcuni seguaci di quel Nazareno di cui parla Tacito – come quella strana coppia di giudei, tali Pietro e Paolo, messi a morte a Roma dal mio discepolo Nerone più o meno negli stessi mesi in cui ebbe fine anche la mia vita – dicono addirittura che la vera contemplazione consista proprio nel riuscire a vedere il mondo con gli occhi di Dio… Empia pretesa? Ma non è forse altrettanto empio il pensare che il nostro sguardo sia l’unico possibile su ogni realtà?
Così, ripensando al suicidio, ho iniziato a tener in maggior conto situazioni, atteggiamenti e interpretazioni che forse non avevo considerato a sufficienza o, addirittura, che non avrei mai ritenuto possibili. Qual è, infatti, il confine che separa un martire che non fa nulla per scongiurare la propria morte da un suicida che la anticipa? E poi che dire degli emuli attuali di Sansone, disposti a darsi la morte per trascinare con sé gli odiati nemici? Non pochi di loro, tra l’altro, possono considerarsi discendenti dei Filistei sterminati dall’eroe biblico, martire o suicida che sia.
Ma il discorso si complica ancor di più quando ci si avvicina alla fine della vita, a quel tempo ormai sempre più dilatato cui si dà il nome di finevita, quella notte in cui sofferenza fisica e dolore intimo alterano i sentimenti del malato come dei suoi cari. Oggi senti parlare di suicidio assistito e di eutanasia, di accanimento terapeutico e di testamento biologico. E in tutto questo le leggi degli stati dovrebbero sforzarsi di normare e disciplinare, in nome di un sentire comune, di un’etica condivisa, situazioni in cui la dimensione personale resta decisiva. Compito non facile, per il quale il diffuso orientamento giuridico che considera reato il tentato omicidio e non il tentato suicidio si rivela insufficiente.
Credo che se fossimo saggi e franchi, cioè se accettassimo di pensare quello che diciamo e di dire quello che pensiamo, dovremmo riconoscere che il suicidio rimane una domanda muta che esige un grande rispetto. Nella mia lettera precedente cercavo di dar conto di un dato acclarato: da che mondo è mondo, vi sono esseri umani che, nonostante la spinta vitale che li abita fin dal grembo materno, decidono di darsi la morte. Cercavo anche di fornirne ragioni positive, senza per questo incitare alcuno a tale gesto: istigare al suicidio è un reato non solo moderno. “Ne uccide più la lingua della spada” è verità antichissima.
Cosa spinge un essere umano a suicidarsi? La lucida consapevolezza, da me invocata, di come sia “vergognoso vivere di rapina” mentre è “bellissimo morire di rapina”? Temo siano pochi ad appartenere a questa schiera. Un dolore insopportabile? Una vergogna insostenibile? La paura di affrontare un futuro incombente? La perdita del senno? L’esito di una malattia? La scomparsa di una persona amata? Ogni situazione è diversa e ciascuna merita profondo rispetto e di essere guardata con gli occhi dell’altro.
Sento dire dai discepoli di Gesù di Nazareth che la vita non appartiene all’essere umano: gli è stata data e andrebbe restituita puntualmente al Creatore al momento da Questi fissato e non prima. Ma anche alcuni dei cristiani riconoscono che l’atto del morire è arte difficile da apprendere, è passaggio vissuto a denti stretti nel dolore e nella fatica di comprenderne il senso: dovrebbe essere compiuto con confidenza e speranza, con un assenso all’ora che sopraggiunge senza che la si possa scegliere. Ma quando non si riesce più a cogliere la vita come tale, che senso ha protrarla?
Ho avuto modo anche di riflettere su un altro aspetto dell’enigma del suicidio: che il suicida lo voglia o no, il suo gesto è sempre fonte di dolore e di colpevolizzazione in chi resta. Credo che il più delle volte il suicidio “uccide” anche quelli che vivevano con il suicida, uccide la comunione che esisteva tra loro, uccide la possibilità di comprensione e desta in chi rimane interrogativi angoscianti e privi di risposta. Allora, di fronte a un suicidio, varrebbe la pena di sospendere ogni giudizio e cogliere invece l’occasione per verificare il “suicidio che ci abita”, il nostro rifiuto della vita che così sovente consumiamo senza avere la forza o la disperazione per darci la morte fisica.
Non ti sembri che sia anch’io divenuto un discepolo del Cristo – anche se qualcuno ha voluto dipingermi come il pensatore romano più vicino ai cristiani – ma sono convinto che ciascuno di noi sia chiamato a privilegiare fino all’ultimo l’amore: l’amore che sa dare e l’amore che sa ricevere. È in gioco la dignità e la qualità di ogni essere umano: questo mi pare l’elemento che conta in definitiva.
Allora il problema resta sempre il medesimo, caro Lucilio: cosa davvero importa per noi nella vita. Già, perché – come diceva un’arzilla vecchietta ebrea al suo nipote Jonathan Safran Foer che gli chiedeva perché mai, letteralmente morente di fame, avesse rinunciato a mangiare un pezzo di carne di maiale che avrebbe potuto salvarle la vita – “Se niente importa, non c’è niente da salvare”.
Cura ut valeas

Seneca

Post scriptum: mi dicono che nel xxi secolo dell’era volgare scrivere con i caratteri maiuscoli equivalga a urlare. Parce, amice! Non è questa la mia intenzione, ma il minuscolo non lo conosco ancora...