giovedì 18 aprile 2019

Ecumene 4 - Diaspora/Costantinopoli


Proseguendo la collaborazione con Luoghi dell'Infinito, supplemento mensile di Avvenire, nella puntata di aprile della rubrica Ecumene ho cercato di leggere la diaspora dei cristiani, presenti in molti paesi come piccole minoranze, come opportunità ecumenica per lo stare nel mondo come fratelli e sorelle in umanità.




“Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono della diaspora, salute!” (Gc 1,1). Questo primo versetto della Lettera di Giacomo contiene il nucleo essenziale della questione della “diaspora”, oggi particolarmente cogente nel dialogo ecumenico. Vi è innanzitutto l’origine giudaica della realtà e della categoria della diaspora, cioè della dispersione dei credenti in terre e regioni lontane dalle radici in cui affonda la fede nel Signore Dio. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’Impero Romano nel 70 d.C., gli ebrei, già presenti almeno nelle principali città del bacino mediterraneo a cominciare da Alessandria d’Egitto, si videro costretti a una diaspora che potesse garantire loro la sopravvivenza come comunità di credenti nel Dio dei padri. È a queste comunità che gli apostoli di Gesù Cristo portarono in primo luogo l’annuncio evangelico, creando così “le dodici tribù nella diaspora” (ricalcate sulle dodici tribù di Israele) a cui Giacomo rivolge le proprie cure pastorali. L’accezione negativa di dispersione dovuta a una fuga obbligata inizia ad assumere i connotati positivi di una seminagione feconda, secondo l’immagine delle spore di un fiore disseminate dal vento.
La successiva e rapida diffusione del Cristianesimo anche in territori esterni ai confini dell’Impero romano d’Oriente portò già il concilio di Calcedonia (451) ad attribuire al Patriarca di Costantinopoli la giurisdizione sui vescovi in missione in quelle che allora erano chiamate “terre dei barbari”, lasciando che un ruolo equivalente per le regioni occidentali venisse svolto dal Vescovo di Roma, patriarca d’Occidente.
Nel corso dei secoli questa cura pastorale per i fedeli ortodossi in terre al di là dei confini dell’Impero, nel frattempo scomparso, portò progressivamente alla creazione di chiese autocefale corrispondenti alle diverse aree geografiche e linguistiche, anche per sopperire alle condizioni di minor libertà di azione cui si era storicamente venuto a trovare il Patriarcato di Costantinopoli.
Tuttavia il fenomeno migratorio iniziatosi alla fine del XIX secolo ha riprodotto la situazione della “diaspora” e le relative esigenze pastorali, acuendo il problema di quale Chiesa avesse competenza – quindi diritto e responsabilità – per la cura dei fedeli emigrati appartenenti originariamente a una Chiesa ortodossa autocefala: quest’ultima oppure il Patriarcato di Costantinopoli?
Così il retto principio ecclesiologico stabilito dai primi concili ecumenici di avere un solo Vescovo in una città (fissato a Nicea) e un solo Metropolita per provincia ecclesiastica (affermato a Calcedonia) ha subito e subisce costantemente molteplici eccezioni, anche se sempre motivate dalla sollecitudine per i bisogni spirituali dei fedeli.
Al di là delle soluzioni più o meno condivise e nonostante le tensioni che suscita – anche a motivo del suo frequente intrecciarsi con ragioni socio-politiche più o meno esterne alla Chiesa stessa – la questione della diaspora cristiana mostra ancora tutta la sua potenzialità ecumenica: la “dispersione” dei cristiani in mezzo ai loro fratelli e sorelle in umanità saprà dare vita a Chiese locali dal respiro autenticamente universale e capaci di testimoniare – al di là delle differenze di lingua e cultura – quell’unità voluta da Cristo per i suoi discepoli?