Proseguendo la collaborazione con Luoghi dell'Infinito, supplemento mensile di Avvenire, nella puntata di aprile della rubrica Ecumene ho cercato di leggere la diaspora dei cristiani, presenti in molti paesi come piccole minoranze, come opportunità ecumenica per lo stare nel mondo come fratelli e sorelle in umanità.
“Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici
tribù che sono della diaspora, salute!” (Gc 1,1). Questo primo
versetto della Lettera di Giacomo contiene il nucleo essenziale della
questione della “diaspora”, oggi particolarmente cogente nel
dialogo ecumenico. Vi è innanzitutto l’origine giudaica della
realtà e della categoria della diaspora, cioè della dispersione dei
credenti in terre e regioni lontane dalle radici in cui affonda la
fede nel Signore Dio. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme
ad opera dell’Impero Romano nel 70 d.C., gli ebrei, già presenti
almeno nelle principali città del bacino mediterraneo a cominciare
da Alessandria d’Egitto, si videro costretti a una diaspora che
potesse garantire loro la sopravvivenza come comunità di credenti
nel Dio dei padri. È a queste comunità che gli apostoli di Gesù
Cristo portarono in primo luogo l’annuncio evangelico, creando così
“le dodici tribù nella diaspora” (ricalcate sulle dodici tribù
di Israele) a cui Giacomo rivolge le proprie cure pastorali.
L’accezione negativa di dispersione dovuta a una fuga obbligata
inizia ad assumere i connotati positivi di una seminagione feconda,
secondo l’immagine delle spore di un fiore disseminate dal vento.
La successiva e
rapida diffusione del Cristianesimo anche in territori esterni ai
confini dell’Impero romano d’Oriente portò già il concilio di
Calcedonia (451) ad attribuire al Patriarca di Costantinopoli la
giurisdizione sui vescovi in missione in quelle che allora erano
chiamate “terre dei barbari”, lasciando che un ruolo equivalente
per le regioni occidentali venisse svolto dal Vescovo di Roma,
patriarca d’Occidente.
Nel corso dei secoli questa cura pastorale per i fedeli ortodossi in
terre al di là dei confini dell’Impero, nel frattempo scomparso,
portò progressivamente alla creazione di chiese autocefale
corrispondenti alle diverse aree geografiche e linguistiche, anche
per sopperire alle condizioni di minor libertà di azione cui si era
storicamente venuto a trovare il Patriarcato di Costantinopoli.
Tuttavia il fenomeno
migratorio iniziatosi alla fine del XIX secolo ha riprodotto la
situazione della “diaspora” e le relative esigenze pastorali,
acuendo il problema di quale Chiesa avesse competenza – quindi
diritto e responsabilità – per la cura dei fedeli emigrati
appartenenti originariamente a una Chiesa ortodossa autocefala:
quest’ultima oppure il Patriarcato di Costantinopoli?
Così il retto
principio ecclesiologico stabilito dai primi concili ecumenici di
avere un solo Vescovo in una città (fissato a Nicea) e un solo
Metropolita per provincia ecclesiastica (affermato a Calcedonia) ha
subito e subisce costantemente molteplici eccezioni, anche se sempre
motivate dalla sollecitudine per i bisogni spirituali dei fedeli.
Al di là delle
soluzioni più o meno condivise e nonostante le tensioni che suscita
– anche a motivo del suo frequente intrecciarsi con ragioni
socio-politiche più o meno esterne alla Chiesa stessa – la
questione della diaspora cristiana mostra ancora tutta la sua
potenzialità ecumenica: la “dispersione” dei cristiani in mezzo
ai loro fratelli e sorelle in umanità saprà dare vita a Chiese
locali dal respiro autenticamente universale e capaci di testimoniare
– al di là delle differenze di lingua e cultura – quell’unità
voluta da Cristo per i suoi discepoli?