domenica 13 novembre 2022

 


SCENARI

C’È POSTO PER LA PACE?

Dario Fabbri e Guido Dotti in dialogo, moderati da Costanza Spocci

Vicenza – Festival biblico – Venerdì 27 maggio 2022

Intervento di Guido Dotti

Alla luce degli eventi di questi ultimi mesi, la domanda sull’esistenza o meno di un posto per la pace nel mondo appare quanto mai peregrina: non c’è posto per la pace, né oggi né a breve-medio termine. La pace appare pura u-topia, non-luogo, realtà contraddetta a ogni istante: un sogno senza casa, senza un minimo spazio in cui dimorare.

Eppure, proprio per questo può valer la pena tornare a un testo che ha segnato una svolta decisiva nel magistero della Chiesa cattolica, la Pacem in terris, che così si concludeva: “Queste nostre parole, che abbiamo voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo. […] Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà” (§ 89).

In verità, quella frase lapidaria – “se vuoi la pace, prepara la guerra” – che ci è stata trasmessa fin da ragazzini come fosse un’eredità da accettare senza beneficio di inventario, è rimasta nel nostro patrimonio genetico individuale e collettivo, come constatiamo amaramente anche in questi giorni. Ma è significativo che già Paolo VI e poi Giovanni Paolo II, nei messaggi in occasione dell’annuale ricorrenza della “Giornata mondiale della pace”, ne abbiano ripreso più volte la prima parte per declinare in maniera opposta la seconda: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” (1972), “Se vuoi la pace, difendi la vita” (1977), “Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo” (1991), “Se vuoi la pace, vai incontro ai poveri” (1993)… Questo a ricordare come l’insistenza di papa Francesco, dai primi mesi di pontificato fino alla Fratelli tutti e agli instancabili appelli odierni in favore della pace, venga da molto lontano – dal Vangelo – e da molto in profondità, dal cuore stesso della Chiesa.


Così il paragrafo di apertura del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2021 di papa Francesco crea un collegamento esplicito tra cura e pace: “La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente”.

All’inizio della prima ondata di contagi – e di morti – causati dal Covid-19, con pochi altri avevo cercato di “disarmare” la retorica della guerra al virus con la metafora della cura: in pieno sforzo di contrasto al diffondersi della pandemia, soprattutto da parte di chi sopportava il peso maggiore della fatica e dei rischi, veniva la richiesta di pensare in termini di cura e non di guerra alle forti criticità presenti e all’incerto futuro che ci attende come società e quindi anche come chiesa.

La pandemia ci ha mostrato con ogni evidenza che non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. Ora purtroppo anche noi come molti altri popoli su tutta la terra, siamo in guerra, ma continuiamo soprattutto a essere in cura. E la cura abbraccia ogni aspetto della nostra esistenza chiedendo a ciascuno di dare il meglio di sé, dispiegando le proprie risorse umane ed etiche: forza, perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia… Doti sovente impiegate anche in guerra, ma insufficienti in quel contesto: infatti la guerra, a differenza della cura, necessita soprattutto di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro… La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza…

Rispetto per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano, per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti” – non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14).

In un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non coinvolgimento nelle opere del potere e della forza. E similmente avviene ancora oggi là dove la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la solidarietà dei poveri e degli artigiani di pace. Ancora oggi verrebbe da ripetere con il salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal 120,6-7).

La pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa, quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non “scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.




C’è bisogno di artigiani di pace; questo termine non suona a noi così immediatamente familiare, ma in altre lingue, ad esempio il francese, è il termine con il quale si traduce la beatitudine che noi definiamo con il termine “operatori di pace”. Ci sono caratteristiche dell’artigiano che vediamo come possano essere significative anche per pensare e generare un mondo aperto. Non vorrei idealizzare troppo la figura dell’artigiano, mi sembra però che in essa ci sia la dimensione dell’apprendistato all’operare.

Io credo che la capacità di generare la pace, è un’arte che si apprende, che si impara; è importante che questa generazione di un mondo aperto, interagisca con le varie strutture, che regolano i rapporti tra gli esseri umani e il loro vivere in società; Nella Fratelli tutti Papa Francesco collega gli artigiani di pace con la necessità di una architettura della pace.

Molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere gli artigiani veri, coloro che hanno due caratteristiche fondamentali: la prima è quella di aver appreso un’arte, una maestria diciamo; la seconda è quella di avere cura dei singoli oggetti, delle singole opere che vanno a realizzare. In realtà l’artigiano nasce, se così si può dire, dall’essersi messo alla scuola andando a bottega da qualcuno che può essere all’interno della famiglia, oppure presso un maestro al di fuori, che insegna i segreti del mestiere, soprattutto attraverso l’esempio. S’impara l’uso degli strumenti più appropriati, la scelta dei materiali, la pazienza nell’aspettare e nel capire qual è il momento giusto per realizzare la successione degli interventi sull’oggetto.

Questa è la parte formativa dell’artigiano; se volete è l’imparare a pensare in un dato modo il rapporto con il mondo, il rapporto con gli oggetti, il rapporto con un oggetto che ancora non c’è, ma che deve nascere. L’altra caratteristica dell’artigiano è che, appresa l’arte, la applica con cura agli oggetti e alle persone.

Dobbiamo riflettere su questa dimensione di non produrre in serie. La bottega non è una catena di montaggio, non è una macchina che produce cose, anche se si serve di macchine. Ogni pezzo prodotto, anche quando è prodotto con uno stampo, è un pezzo unico perché poi l’artigiano non solo lo rifinisce ma, avendo in mente la tipologia della persona che prenderà in mano quell’oggetto, lo elabora a partire da una doppia cura, la cura dell’oggetto e la cura del futuro utilizzatore dell’oggetto che sovente è anche il committente, colui che glielo ha ordinato. Pensate ai calzolai che facevano le scarpe su misura, sapevano fare le scarpe, ma poi le adattavano a delle persone in particolare. C’è questa cura per l’oggetto perché diventi ciò che deve essere, e poi c’è una cura che continua nel tempo e quindi diventa abilità, maestria, arte del saper riparare, del saper prendersi cura fino alla fine dell’oggetto.

 

Ulteriori spunti di riflessione / dibattito

  • Le armi sono prodotte in serie, gli strumenti di pace sono pezzi unici
  • La guerra è sempre uguale, anche se le armi diventano sempre più distruttive
  • La pace è sempre diversa, perché le persone, le culture, le società, le stagioni sono sempre diverse
  • Un cadavere è sempre uguale
  • Una persona viva è sempre unica e diversa, dalle altre e da se stessa di un tempo.
  • Io credo che, nel pensare a un mondo nuovo, la presenza e l’attività di artigiani di pace, artigiani di riconciliazione, artigiani di questa “generatività” verso un mondo nuovo, sia determinante: come si fa ad avere questa capacità di apertura, se non se ne sanno maneggiare gli strumenti che permettono e facilitano l’opera?
La pace avrà quel posto che saremo stati capaci di prepararle.

 



martedì 4 ottobre 2022

Artigiani di pace

La pubblicazione dell'ottimo thread di @albertoinfelise sui "Costruttori di pace sempre" https://twitter.com/albertoinfelise/status/1577296915917639680 

mi stimola a riprendere una parte del mio intervento sugli "Artigiani di pace" che ho condiviso con alcuni giovani in occasione di un seminario su "Vincere la pace", svoltosi  a Bose lo scorso agosto: https://www.monasterodibose.it/ospitalita/agenda/giovani-18-30/14882-vincere-la-pace

 

ARTIGIANI DI PACE

C’è bisogno di artigiani di pace; questo termine non suona a noi così immediatamente familiare, ma in altre lingue, ad esempio il francese, è il termine con il quale si traduce la beatitudine che noi definiamo con il termine “operatori di pace”. Ci sono caratteristiche dell’artigiano che vediamo come possano essere significative anche per pensare e generare un mondo aperto. Non vorrei idealizzare troppo la figura dell’artigiano, mi sembra però che in essa ci sia la dimensione dell’apprendistato all’operare.

Io credo che la capacità di generare la pace, è un’arte che si apprende, che si impara; è importante che questa generazione di un mondo aperto, interagisca con le varie strutture, che regolano i rapporti tra gli esseri umani e il loro vivere in società; Nella Fratelli tutti Papa Francesco collega gli artigiani di pace con la necessità di una architettura della pace.







Molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere gli artigiani veri, coloro che hanno due caratteristiche fondamentali: la prima è quella di aver appreso un’arte, una maestria diciamo; la seconda è quella di avere cura dei singoli oggetti, delle singole opere che vanno a realizzare. In realtà l’artigiano nasce, se così si può dire, dall’essersi messo alla scuola andando a bottega da qualcuno che può essere all’interno della famiglia, oppure presso un maestro al di fuori, che insegna i segreti del mestiere, soprattutto attraverso l’esempio. S’impara l’uso degli strumenti più appropriati, la scelta dei materiali, la pazienza nell’aspettare e nel capire qual è il momento giusto per realizzare la successione degli interventi sull’oggetto.


Questa è la parte formativa dell’artigiano; se volete è l’imparare a pensare in un dato modo il rapporto con il mondo, il rapporto con gli oggetti, il rapporto con un oggetto che ancora non c’è, ma che deve nascere. L’altra caratteristica dell’artigiano è che, appresa l’arte, la applica con cura agli oggetti e alle persone.

Dobbiamo riflettere su questa dimensione di non produrre in serie. La bottega non è una catena di montaggio, non è una macchina che produce cose, anche se si serve di macchine. Ogni pezzo prodotto, anche quando è prodotto con uno stampo, è un pezzo unico perché poi l’artigiano non solo lo rifinisce ma, avendo in mente la tipologia della persona che prenderà in mano quell’oggetto, lo elabora a partire da una doppia cura, la cura dell’oggetto e la cura del futuro utilizzatore dell’oggetto che sovente è anche il committente, colui che glielo ha ordinato. Pensate ai calzolai che facevano le scarpe su misura, sapevano fare le scarpe, ma poi le adattavano a delle persone in particolare. C’è questa cura per l’oggetto perché diventi ciò che deve essere, e poi c’è una cura che continua nel tempo e quindi diventa abilità, maestria, arte del saper riparare, del saper prendersi cura fino alla fine dell’oggetto.



Le armi sono prodotte in serie,
gli strumenti di pace sono pezzi unici

La guerra è sempre uguale,
anche se le armi diventano sempre più distruttive
La pace è sempre diversa,
perché le persone, le culture, le società, le stagioni sono sempre diverse

Un cadavere è sempre uguale
Una persona viva è sempre unica e diversa,
dalle altre e da se stessa di un tempo.


Io credo che, nel pensare a un mondo nuovo, la presenza e l’attività di artigiani di pace, artigiani di riconciliazione, artigiani di questa “generatività” verso un mondo nuovo, sia determinante: come si fa ad avere questa capacità di apertura, se non se ne sanno maneggiare gli strumenti che permettono e facilitano l’opera?




La pace avrà quel posto che saremo stati capaci di prepararle.

giovedì 31 marzo 2022

Disarmiamoci


 

 
Ho letto con interesse e coinvolgimento il recente articolo di Vito Mancuso del 29 marzo sul suo sito, dal titolo “Sulle armi e la loro necessità”. Vorrei evidenziare quelli che ritengo limiti e contraddizioni del ragionamento sviluppato da Mancuso.
Innanzitutto, pur parlando di armi, sarebbe bene “disarmare” il linguaggio: davvero ci siamo messi tutti ad “armare la propria” mente? Davvero ci informiamo solo per “acquisire munizioni cognitive per bombardare con le nostre parole le postazioni avversari”? Abbiamo visto con la pandemia come sia facile – ma anche pericoloso e controproducente – fare ricorso al linguaggio della guerra anziché a quello della cura: non mi pare fecondo utilizzarlo anche per un serio dibattito pubblico. Non si rischia in questo modo di ergere a paradigma la logica del “discorso di odio”? Inoltre mi pare si venga così a creare un cortocircuito con la conclusione del ragionamento di Mancuso: come ipotizzare “un investimento [dei governi] ancora più importante riservando all’educazione della coscienza il doppio di quanto investono per le armi”, se ogni acquisizione di nozioni – presupposto per un’educazione della coscienza – è vista come incetta di “munizioni cognitive per bombardare”?
Personalmente, e non mi pare proprio di essere l’unico, leggo e mi informo per cercare di capire, sia gli eventi che le loro conseguenze sulle persone, sul loro modo di pensare e di agire; leggo e mi informo per mettere alla prova le mie convinzioni, per discernere cioè che maggiormente favorisce la pace giusta, la dignità di essere umano, la fratellanza universale.
Trovo fuorviante il riferimento a “l’insegnamento di Moro e di Campanella (e di molti altri che prefigurarono lo stato ideale, a partire da Platone)” per ribadire che perfino nel mondo dell’utopia le armi sono previste e necessarie in quanto “nello sforzo di ricercare la pace e l’armonia sopra ogni altra cosa non si può evitare di fare i conti con la realtà e con il male che essa purtroppo contiene, se si vuole essere responsabili”. Perché, invece di prendere esempi nel mondo immaginario, non ha citato persone che hanno fatto sì i conti con la realtà e con il male che contiene, ma lo hanno fatto molto realisticamente e in modo nonviolento? Non sembra a Mancuso che Gandhi o Martin Luther King o altri “nonviolenti attivi” avrebbero qualcosa da dire ancora oggi, forse ancor più, almeno su questo argomento, di Moro e Campanella? Così si terrebbe anche conto che le armi di cui parlavano Platone, Moro e Campanella non sono neanche lontanamente paragonabili non solo agli odierni ordigni nucleari ma neanche alle armi “convenzionali”.
Mancuso inoltre sembra ignorare che la stessa legislazione italiana, nel lungo iter che ha preceduto e seguito la Legge 772/1972 sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare ha stabilito che il sacro dovere di difesa della patria può essere assolto anche senza armi? È al corrente che questo “sacro dovere” non è venuto meno neanche dopo l’abolizione del servizio di leva obbligatorio?
La sua domanda “come ci si difende senza le armi?” è artificio retorico oppure ignoranza di tutta l’ormai secolare prassi (e relativa ampia letteratura) sulla “difesa popolare nonviolenta”? O entrambe le cose? È al corrente che uno stato sovrano come il Costarica ha rinunciato all’esercito più di settant’anni fa e gode di un tenore di vita nettamente migliore di quello dei paesi confinanti?
Le mie sono osservazioni ingenue, ma confido venga loro riconosciuta la nonviolenza che intendono esprimere e alimentare.

domenica 6 febbraio 2022

Parla di questo popolo del Myanmar

A distanza di un anno dal colpo di stato in Myanmar ho ricevuto una lettera aperta da un missionario che vive in quella terra e che chiede con struggente forza e mitezza di "parlare di questo popolo", affinché "un popolo così bello non cada nel nostro silenzio".

E' quello che faccio con questo post, memore del mio "Pellegrinaggio di giustizia e pace" con il Consiglio Ecumenico delle Chiese nei campi profughi interni nel Kachin, nel 2019.

I miei sentimenti sono così ben espressi dalle parole di quest'uomo di fede, abitato dall'umanità delle persone in mezzo alle quali vive.

 


 

 Il 31 Gennaio del 2021 c'era un grande senso di attesa ed eccitazione in strada e nelle case, come la sensazione che quanto avevamo vissuto negli ultimi cinque anni non fosse stato un sogno o un'illusione, ma vita vera. 

Il giorno dopo, il 1 Febbraio, il nuovo governo si sarebbe insediato, il secondo governo eletto democraticamente nella storia moderna del Myanmar.

I militari avevano già circondato l'hotel dove si erano radunati i nuovi membri del governo, c'erano voci e minacce, ma tutti avevamo fiducia nel fatto che non sarebbe più stato possibile un passo indietro e un ritorno alla dittatura. Il gusto della libertà entra velocemente e profondamente dentro i pensieri, le emozioni, le relazioni di chi lo assapora. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di costruire se stessi nello spazio e nel tempo, di sognare e costruire il proprio futuro. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di innamorarsi, il modo di vivere e morire, il modo di lavorare: è un vocabolario nuovo, sono azioni nuove, sono emozioni nuove, sono pensieri nuovi.

Il 31 Gennaio del 2021 tutti pensavamo che nessuno, neanche i militari, avrebbero potuto fare a meno di questo gusto, che tutti ne fossero stati ammaliati e contagiati, che tutti se ne fossero innamorati, che tutti avessero dato nuove forme alla propria vita e ai propri sogni.

Il 1 Febbraio del 2021 ci siamo svegliati nel silenzio. Le comunicazioni erano interrotte: i collegamenti telefonici disattivati, internet inaccessibile, i canali televisivi oscurati. Il gusto della libertà, tuttavia, aveva ancora il potere di far pensare a un guasto tecnico: il gusto della libertà vive della fiducia, e c'era fiducia che non fosse successo niente.

Nelle prime ore del mattino, chi aveva antenne paraboliche con la possibilità di intercettare canali televisivi della Thailandia e canali di news internazionali, cominciava invece ad ascoltare voci antiche, ancora temute: la Signora era stata arrestata assieme al Presidente dell'Unione del Myanmar e ad altri membri del partito di maggioranza che avrebbero giurato fedeltà alla Costituzione poche ore dopo.

Al senso di attesa ed eccitazione delle ore precedenti, fa seguito una cascata di emozioni: sgomento, paura, rabbia, tristezza, incredulità.

C'è confusione: era sogno il gusto della libertà oppure è sogno il ritorno alla dittatura?

Cala un grande silenzio sul Myanmar: non c'è forza di parlare, non c'è forza per immaginare vecchi e nuovi scenari, non c'è più voglia di chiamare all'appello la rabbia di decenni di abusi e soprusi. Non c'è più spazio per questo nel cuore.

Verso mezzogiorno le comunicazioni si attivano nuovamente, iniziano le telefonate, le informazioni, le televisioni di stato trasmettono le immagini dei militari che prendono possesso del parlamento. Per strada si vedono già i primi posti di blocco, i militari allestiscono la coreografia antica del Myanmar: i "fantasmi verdi" tornano nelle strade, nelle case, nelle vite delle persone.

Ci scambiamo messaggi, ci diciamo che durerà poco, che la comunità internazionale non potrà accettare questo stato di cose, che la Signora e il Presidente saranno subito liberati, ma dentro c'è pianto, c'è lutto, c'è una grande domanda che pesa sulla coscienza, ed è la domanda del perché: perché è successo ancora? Perché la pace deve essere sempre così irraggiungibile? Perché la pace, che è così bella, deve essere sempre criminalizzata, vista con sospetto, maltrattata e violentata? Perché la libertà deve essere desiderata come un miraggio e mai gustata come la condizione originaria della Creazione, come il modo giusto di essere e di vivere nella storia?

In poche ore si organizzano manifestazioni e scioperi generali. Tra il 2 e il 3 Febbraio il Myanmar scende in strada: lo fa con gentilezza, con garbo. Il popolo del Myanmar scende in strada per dire che "la nazione è nostra". Il popolo mostra il suo volto più bello e gentile: non urla, ma canta. Offre fiori e bottiglie d'acqua alla polizia, perché stare sotto il sole è pesante. I manifestanti si fanno selfie con le forze dell'ordine perché "la nazione è nostra", è di tutti, siamo un unico popolo, e questo è solo un momento di passaggio per capire quanto è bella la pace, quanto è giusta e gustosa la libertà. Alla fine delle giornate di dimostrazioni pacifiche, nella città dove vivo, i giovani che avevano manifestato organizzano gruppi per pulire la città, per renderla bella e pulita, come sempre, perché questa "è la nostra citta'". A Febbraio ci sono canti, fiori, acqua da bere per tutti e selfie.

Ma il 28 Febbraio arriva l'ordine di sparare alle folle. Un mese di scioperi, di canti e manifestazioni sono inammissibili. Non ci sono più fiori, ma proiettili e manganelli. Non ci sono più selfie, ma arresti di massa. Non c'è più acqua, ma sangue.

Seguono mesi di violenze, di privazioni sempre più gravi e violente della libertà, privazioni che si insinuano in ogni gesto e in ogni momento della vita personale e sociale. Fino ad arrivare alle privazioni di oggi, in cui ogni gesto di vita è un atto criminale. Non scendo nei dettagli: sono umilianti anche nella narrazione, riguardano ogni gesto della vita relazionale della vita comune, ogni gesto della vita personale di chiunque voglia sapere, dire, ascoltare, vedere.

Il vivere stesso è stato criminalizzato, l’esserci con questo corpo e con questa capacità di pensare, desiderare, provare emozioni: tutto questo è diventato un gesto criminale. In birmano si dice che “la legge e’ nella bocca di chi parla”, nella bocca di chi ti ferma per strada, e in quel frangente, in quello scambio di sguardi e di parole, ogni gesto può essere risolutivo o fatale: guardare negli occhi o evitare lo sguardo, sorridere o restare impassibile, far finta di nulla o dire tutta la verità.

Circolano numeri di morti e arresti: sono tutti falsi. Ve ne sono molti di più: gli arresti sono rapimenti in cui i due terzi delle persone "arrestate" scompaiono nel nulla, e restano fino ad oggi nel "nulla" del silenzio. Migliaia e migliaia di persone.

Gli abusi e le violenze non vengono censite, non rientrano nelle statistiche: i morti in seguito alle percosse a casa non hanno spazio nelle notizie e nei censimenti, la tragedia delle violenze sessuali con cui i militari uccidono, intimoriscono, esercitano la pratica della vendetta non appaiono sui rotocalchi in cui scriviamo le nostre cronache di provincia o gli ultimi colpi mercenari del calcio mercato.

Con il passare delle settimane, la guerriglia di strada diventa persecuzione casa per casa, e inizia la guerra civile tra i militari e i gruppi della resistenza: da una parte armi sofisticate e pesanti, uniformi ad alta tecnologia; dall’altra parte infradito e calzonicini corti, armi costruite a casa, qualche fucile rimediato al mercato nero.

E la guerra chiama altra guerra, chiama altra morte, distruzione, devastazione, violenza, odio.

E inizia così anche il grande silenzio del mondo sul Myanmar e su tutti quei popoli di cui il Myanmar è simbolo. Inizia e continua il silenzio su tutti quei dolori di guerra e morte che l'umanità vive, in una solitudine difficile da immaginare. Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo cronicamente al margine: al margine dell’attenzione, al margine delle cronache, al margine delle nostre preghiere, al margine degli interessi di mercato e di potere, al margine delle voci che hanno diritto a farsi sentire e a parlare, al margine delle decisioni.

Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo al margine e cronicamente in attesa di essere avvicinato, di essere reso presente, di essere ascoltato, oggetto di attenzione, di preghiera, di intervento. C’è sempre un popolo che avrebbe tanto dire, ma a cui non è concesso spazio di parola.

Ma qui comincia anche il silenzio del popolo del Myanmar.

È un popolo che sa vivere nel silenzio e ai margini della storia, quello del Myanmar. Un popolo umile, un popolo bello nella sua silenziosa dignità. Ha cantato quando ha potuto, ma non svende la propria voce.

Il popolo del Myanmar è tutto descritto nella Parola di Dio: è una figura profetica, è il Vangelo che continua a vivere nella nostra storia di uomini e donne. Il popolo del Myanmar vive nella carne del Servo di IHWH: "Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" (Is 53,3).

E nel suo dolore, come "uomo che ben conosce il patire", vive il silenzio come luogo della propria libertà, come luogo dove continua a promettere pace e libertà a sé stesso: "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca" (Is 53,7).

Nella città dove vivo, negli ultimi mesi, sono arrivate decine di migliaia di persone in fuga dalla guerra e dalla violenza: un esodo che a livello nazionale conta diverse centinaia di migliaia di persone. Nel Centro dove mi trovo, abbiamo ascoltato centinaia di persone, tutte forme nuove di dolore, e con queste persone abbiamo attraversato soglie di umanità e disumanità a cui non eravamo pronti, e cui non è possibile prepararsi.

Le carovane in fuga dalle zone di guerra sono state bersagliate da cecchini militari. Chi è sfuggito ai proiettili, non ha potuto evitare i posti di controllo. Una mamma arrivata da noi al Centro, una volta scesa dall'auto, non è più riuscita a muoversi, bloccata dallo shock di quanto vissuto. Al posto di blocco per entrare in città, i militari hanno preso sua figlia di tre settimane (!), le hanno tolto le fasce in cui era avvolta per ripararla dal freddo per perquisirla (qui è inverno, e siamo in montagna, c'è freddo vero). L’hanno “sfasciata” per verificare che nulla fosse nascosto nelle fasce di una bambina di tre settimane.

Questo non è un evento che racconto per impietosire o disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo.

Un uomo di oltre 70 anni, già da un anno colpito da ictus e paralizzato su tutto il lato sinistro del corpo, è stato costretto a camminare e a strisciare per verificare che non stesse fingendo per sfuggire alle perquisizioni. E' arrivato sporco di terra e sangue, ma più della terra e del sangue lo hanno ferito le lacrime che ha dovuto versare per il dolore e l'umiliazione subita davanti alla propria moglie, ai propri figli e ai propri nipoti: ferito dall'umiliazione di dover strisciare.

Questo non è un evento che racconto per impietosire e disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo. Potrei continuare con la litania degli orrori, ma non voglio, perché c'è anche un'altra litania del bene, la litania del popolo che si raccoglie nel proprio silenzio per custodire la propria dignità e la propria felicità.

Mentre ti scrivo, sento bambini ridere e giocare, sento la musica che le mamme ascoltano mentre preparano il pranzo, sento la chitarra dei giovani che sono impegnati in prove di innamoramento, sento due maestre che stanno leggendo ad alta voce i nomi dei bambini della scuola che apriremo giovedì per tutti i bambini sfollati del nostro quartiere: non vogliamo lasciar fuori nessuno!

Il popolo del Myanmar sa vivere nel silenzio: ne ha fatto una spiritualità, e nel silenzio del proprio dolore trova la forza di tenere lontana la violenza e gli abusi con cui vogliono essere imprigionati e violentati.

"Nel nostro silenzio vinciamo sempre", questo è quanto mi ha detto un mamma che vive con noi.

Qui al Centro dove vivo, ogni giorno, da un anno, prego e celebro l'Eucaristia con persone che non hanno dove posare il capo. Ogni giorno, da un anno, mangio con persone che non hanno dimora. Ogni giorno, da un anno, scherzo con bambini la cui famiglia è stata spaccata, divisa dal conflitto, perseguitata, uccisa.

Ed ogni giorno, in questo silenzio veramente contemplativo, c'è spazio per la gioia e la speranza, per il sorriso e per la gratitudine. Ogni giorno vivo con un popolo che si nutre della gratitudine di quanto respira e assapora, della gratitudine per un saluto e un "grazie" detto in onestà. Ogni giorno vivo con un popolo che rende ancora possibile il vivere quotidiano, perché in un tempo dove tutto il sistema nazione è collassato, dove non esiste più alcuna forma di governo e controllo, dove non è più assicurata la cura di base della salute, esiste la quotidianità della generosità e della cura reciproca, della fiducia che l'altro non mi sarà nemico, ma amico, che ci proteggeremo a vicenda, e che in questo proteggersi accoglieremo i rischi, ma anche tutto il bene, di vivere l'uno per l'altro.

Il popolo del Myanmar, nel suo silenzio, sa abitare il dolore. Guardo a questo popolo con un senso di ammirazione e rispetto che non avevo mai provato prima in vita mia. E’ un popolo che attira affetto, che non può che farsi amare. 

 

Penso a questo popolo come al popolo delle Beatitudini.

Beati i poveri in spirito, e beato il popolo del Myanmar che nella sua impotenza davanti al male, sa che il suo cuore è una forza inviolabile, impenetrabile.

Beati quelli che sono nel pianto, e beato il popolo del Myanmar che nelle sue famiglie spaccate e divise dalla violenza, piange per "irrigare il suo futuro", per dare gioia ai figli e alle figlie di una terra che piange come un gesto di intimità con la propria storia.

Beati i miti, e beato il popolo del Myanmar che non alza la voce, che guarda alla morte con la stessa tenerezza con cui si guarda una sorella amata, da sempre vicina, la sorella più fedele, quella che fino ad ora non ha ancora tradito alcuna delle proprie promesse.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, e beato il popolo del Myanmar che sa bene che la giustizia non è un diritto ereditato dalla storia, ma un cammino difficile e doloroso, una scelta di vita per la quale bisogna essere disposti anche a morire.

Beati i misericordiosi, e beato il popolo del Myanmar, che non chiede vendetta, non la desidera e non la stima, ma chiede solo di poter vivere nella pace e di essere lasciato nella pace.

Beati i puri di cuore, e beato il popolo del Myanmar, con cui è bello vivere, e da cui imparo cosa sia il perdono, da cui imparo cosa sia la gioia delle cose semplici, da cui imparo cosa sia la pazienza, cosa sia l'amore che tutto copre, e con cui sto scoprendo cosa sia la felicità!

Beati gli operatori di pace, e beato il popolo del Myanmar, perché dal proprio sangue ha imparato a fare la pace, ha imparato a desiderarla per tutti, e beato il popolo del Myanmar perché ogni giorno non prega solo per la pace per sé, ma prega per la pace dei popoli, per la pace dell'umanità, perché la pace è bella.

Beati i perseguitati per la giustizia, e beato il popolo del Myanmar, perchè in questa persecuzione impara l'unità, vive la generosità, insegna la perfetta letizia.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male, e beato il popolo del Myanmar che sa sperare nel bene, che sa parlare il vocabolario del Regno dei Cieli. Beato il popolo del Myanmar che sa parlare di amore, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di riconciliazione, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di fedeltà, e quando ne parla dice la verità. 

 

 


Il popolo del Myanmar è timido, si vergogna quando è al centro dell'attenzione, si imbarazza davanti alle lodi. Il popolo del Myanmar è forte e delicato: ha una forte delicatezza.

Sa amare con fedeltà e si lascia amare con docilità, ma richiede di essere guardato e amato con la stessa delicatezza con cui ama, perché ha troppe ferite.

Ieri sera, tardi, dalla stanza in cui scrivo adesso, sentivo le voci delle famiglie che pregavano il rosario: una voce che spaccava il buio, una preghiera che penetrava la tenebra illuminandola. Ecco come immagino il silenzio del popolo del Myanmar: parla nel buio, parla con la tenebra, perché la sa vivere, e cioè sa illuminarla.

Ti scrivo queste righe con una richiesta: che un popolo così bello non cada nel nostro silenzio.

Per favore: parlane! Parla di questo popolo con chiunque: al lavoro, in famiglia, con gli amici, a scuola, al bar, con i tuoi compagni di squadra, con il tuo fidanzato o la tua fidanzata, durante le tue omelie, con il medico di famiglia. Con chiunque.

Se puoi, parlane! Con delicatezza, perché questo popolo ha una lezione importante da dare alla storia dell'umanità: questo popolo, come pochi, incarna il discepolo del Regno dei Cieli nella storia, che reso seme, nella terra cade e muore, ma dona vita.

Parlane, perché parlarne è un'opera di pace, e "un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (Gc 3,18).

 

Un missionario in Myanmar