domenica 6 febbraio 2022

Parla di questo popolo del Myanmar

A distanza di un anno dal colpo di stato in Myanmar ho ricevuto una lettera aperta da un missionario che vive in quella terra e che chiede con struggente forza e mitezza di "parlare di questo popolo", affinché "un popolo così bello non cada nel nostro silenzio".

E' quello che faccio con questo post, memore del mio "Pellegrinaggio di giustizia e pace" con il Consiglio Ecumenico delle Chiese nei campi profughi interni nel Kachin, nel 2019.

I miei sentimenti sono così ben espressi dalle parole di quest'uomo di fede, abitato dall'umanità delle persone in mezzo alle quali vive.

 


 

 Il 31 Gennaio del 2021 c'era un grande senso di attesa ed eccitazione in strada e nelle case, come la sensazione che quanto avevamo vissuto negli ultimi cinque anni non fosse stato un sogno o un'illusione, ma vita vera. 

Il giorno dopo, il 1 Febbraio, il nuovo governo si sarebbe insediato, il secondo governo eletto democraticamente nella storia moderna del Myanmar.

I militari avevano già circondato l'hotel dove si erano radunati i nuovi membri del governo, c'erano voci e minacce, ma tutti avevamo fiducia nel fatto che non sarebbe più stato possibile un passo indietro e un ritorno alla dittatura. Il gusto della libertà entra velocemente e profondamente dentro i pensieri, le emozioni, le relazioni di chi lo assapora. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di costruire se stessi nello spazio e nel tempo, di sognare e costruire il proprio futuro. Il gusto della libertà diventa velocemente e profondamente il modo di innamorarsi, il modo di vivere e morire, il modo di lavorare: è un vocabolario nuovo, sono azioni nuove, sono emozioni nuove, sono pensieri nuovi.

Il 31 Gennaio del 2021 tutti pensavamo che nessuno, neanche i militari, avrebbero potuto fare a meno di questo gusto, che tutti ne fossero stati ammaliati e contagiati, che tutti se ne fossero innamorati, che tutti avessero dato nuove forme alla propria vita e ai propri sogni.

Il 1 Febbraio del 2021 ci siamo svegliati nel silenzio. Le comunicazioni erano interrotte: i collegamenti telefonici disattivati, internet inaccessibile, i canali televisivi oscurati. Il gusto della libertà, tuttavia, aveva ancora il potere di far pensare a un guasto tecnico: il gusto della libertà vive della fiducia, e c'era fiducia che non fosse successo niente.

Nelle prime ore del mattino, chi aveva antenne paraboliche con la possibilità di intercettare canali televisivi della Thailandia e canali di news internazionali, cominciava invece ad ascoltare voci antiche, ancora temute: la Signora era stata arrestata assieme al Presidente dell'Unione del Myanmar e ad altri membri del partito di maggioranza che avrebbero giurato fedeltà alla Costituzione poche ore dopo.

Al senso di attesa ed eccitazione delle ore precedenti, fa seguito una cascata di emozioni: sgomento, paura, rabbia, tristezza, incredulità.

C'è confusione: era sogno il gusto della libertà oppure è sogno il ritorno alla dittatura?

Cala un grande silenzio sul Myanmar: non c'è forza di parlare, non c'è forza per immaginare vecchi e nuovi scenari, non c'è più voglia di chiamare all'appello la rabbia di decenni di abusi e soprusi. Non c'è più spazio per questo nel cuore.

Verso mezzogiorno le comunicazioni si attivano nuovamente, iniziano le telefonate, le informazioni, le televisioni di stato trasmettono le immagini dei militari che prendono possesso del parlamento. Per strada si vedono già i primi posti di blocco, i militari allestiscono la coreografia antica del Myanmar: i "fantasmi verdi" tornano nelle strade, nelle case, nelle vite delle persone.

Ci scambiamo messaggi, ci diciamo che durerà poco, che la comunità internazionale non potrà accettare questo stato di cose, che la Signora e il Presidente saranno subito liberati, ma dentro c'è pianto, c'è lutto, c'è una grande domanda che pesa sulla coscienza, ed è la domanda del perché: perché è successo ancora? Perché la pace deve essere sempre così irraggiungibile? Perché la pace, che è così bella, deve essere sempre criminalizzata, vista con sospetto, maltrattata e violentata? Perché la libertà deve essere desiderata come un miraggio e mai gustata come la condizione originaria della Creazione, come il modo giusto di essere e di vivere nella storia?

In poche ore si organizzano manifestazioni e scioperi generali. Tra il 2 e il 3 Febbraio il Myanmar scende in strada: lo fa con gentilezza, con garbo. Il popolo del Myanmar scende in strada per dire che "la nazione è nostra". Il popolo mostra il suo volto più bello e gentile: non urla, ma canta. Offre fiori e bottiglie d'acqua alla polizia, perché stare sotto il sole è pesante. I manifestanti si fanno selfie con le forze dell'ordine perché "la nazione è nostra", è di tutti, siamo un unico popolo, e questo è solo un momento di passaggio per capire quanto è bella la pace, quanto è giusta e gustosa la libertà. Alla fine delle giornate di dimostrazioni pacifiche, nella città dove vivo, i giovani che avevano manifestato organizzano gruppi per pulire la città, per renderla bella e pulita, come sempre, perché questa "è la nostra citta'". A Febbraio ci sono canti, fiori, acqua da bere per tutti e selfie.

Ma il 28 Febbraio arriva l'ordine di sparare alle folle. Un mese di scioperi, di canti e manifestazioni sono inammissibili. Non ci sono più fiori, ma proiettili e manganelli. Non ci sono più selfie, ma arresti di massa. Non c'è più acqua, ma sangue.

Seguono mesi di violenze, di privazioni sempre più gravi e violente della libertà, privazioni che si insinuano in ogni gesto e in ogni momento della vita personale e sociale. Fino ad arrivare alle privazioni di oggi, in cui ogni gesto di vita è un atto criminale. Non scendo nei dettagli: sono umilianti anche nella narrazione, riguardano ogni gesto della vita relazionale della vita comune, ogni gesto della vita personale di chiunque voglia sapere, dire, ascoltare, vedere.

Il vivere stesso è stato criminalizzato, l’esserci con questo corpo e con questa capacità di pensare, desiderare, provare emozioni: tutto questo è diventato un gesto criminale. In birmano si dice che “la legge e’ nella bocca di chi parla”, nella bocca di chi ti ferma per strada, e in quel frangente, in quello scambio di sguardi e di parole, ogni gesto può essere risolutivo o fatale: guardare negli occhi o evitare lo sguardo, sorridere o restare impassibile, far finta di nulla o dire tutta la verità.

Circolano numeri di morti e arresti: sono tutti falsi. Ve ne sono molti di più: gli arresti sono rapimenti in cui i due terzi delle persone "arrestate" scompaiono nel nulla, e restano fino ad oggi nel "nulla" del silenzio. Migliaia e migliaia di persone.

Gli abusi e le violenze non vengono censite, non rientrano nelle statistiche: i morti in seguito alle percosse a casa non hanno spazio nelle notizie e nei censimenti, la tragedia delle violenze sessuali con cui i militari uccidono, intimoriscono, esercitano la pratica della vendetta non appaiono sui rotocalchi in cui scriviamo le nostre cronache di provincia o gli ultimi colpi mercenari del calcio mercato.

Con il passare delle settimane, la guerriglia di strada diventa persecuzione casa per casa, e inizia la guerra civile tra i militari e i gruppi della resistenza: da una parte armi sofisticate e pesanti, uniformi ad alta tecnologia; dall’altra parte infradito e calzonicini corti, armi costruite a casa, qualche fucile rimediato al mercato nero.

E la guerra chiama altra guerra, chiama altra morte, distruzione, devastazione, violenza, odio.

E inizia così anche il grande silenzio del mondo sul Myanmar e su tutti quei popoli di cui il Myanmar è simbolo. Inizia e continua il silenzio su tutti quei dolori di guerra e morte che l'umanità vive, in una solitudine difficile da immaginare. Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo cronicamente al margine: al margine dell’attenzione, al margine delle cronache, al margine delle nostre preghiere, al margine degli interessi di mercato e di potere, al margine delle voci che hanno diritto a farsi sentire e a parlare, al margine delle decisioni.

Nella storia, nella nostra storia, c’è sempre un popolo al margine e cronicamente in attesa di essere avvicinato, di essere reso presente, di essere ascoltato, oggetto di attenzione, di preghiera, di intervento. C’è sempre un popolo che avrebbe tanto dire, ma a cui non è concesso spazio di parola.

Ma qui comincia anche il silenzio del popolo del Myanmar.

È un popolo che sa vivere nel silenzio e ai margini della storia, quello del Myanmar. Un popolo umile, un popolo bello nella sua silenziosa dignità. Ha cantato quando ha potuto, ma non svende la propria voce.

Il popolo del Myanmar è tutto descritto nella Parola di Dio: è una figura profetica, è il Vangelo che continua a vivere nella nostra storia di uomini e donne. Il popolo del Myanmar vive nella carne del Servo di IHWH: "Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" (Is 53,3).

E nel suo dolore, come "uomo che ben conosce il patire", vive il silenzio come luogo della propria libertà, come luogo dove continua a promettere pace e libertà a sé stesso: "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca" (Is 53,7).

Nella città dove vivo, negli ultimi mesi, sono arrivate decine di migliaia di persone in fuga dalla guerra e dalla violenza: un esodo che a livello nazionale conta diverse centinaia di migliaia di persone. Nel Centro dove mi trovo, abbiamo ascoltato centinaia di persone, tutte forme nuove di dolore, e con queste persone abbiamo attraversato soglie di umanità e disumanità a cui non eravamo pronti, e cui non è possibile prepararsi.

Le carovane in fuga dalle zone di guerra sono state bersagliate da cecchini militari. Chi è sfuggito ai proiettili, non ha potuto evitare i posti di controllo. Una mamma arrivata da noi al Centro, una volta scesa dall'auto, non è più riuscita a muoversi, bloccata dallo shock di quanto vissuto. Al posto di blocco per entrare in città, i militari hanno preso sua figlia di tre settimane (!), le hanno tolto le fasce in cui era avvolta per ripararla dal freddo per perquisirla (qui è inverno, e siamo in montagna, c'è freddo vero). L’hanno “sfasciata” per verificare che nulla fosse nascosto nelle fasce di una bambina di tre settimane.

Questo non è un evento che racconto per impietosire o disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo.

Un uomo di oltre 70 anni, già da un anno colpito da ictus e paralizzato su tutto il lato sinistro del corpo, è stato costretto a camminare e a strisciare per verificare che non stesse fingendo per sfuggire alle perquisizioni. E' arrivato sporco di terra e sangue, ma più della terra e del sangue lo hanno ferito le lacrime che ha dovuto versare per il dolore e l'umiliazione subita davanti alla propria moglie, ai propri figli e ai propri nipoti: ferito dall'umiliazione di dover strisciare.

Questo non è un evento che racconto per impietosire e disturbare la coscienza delle persone: questo è successo davvero, questa è storia, questa è la storia a cui noi tutti apparteniamo, ovunque siamo. Potrei continuare con la litania degli orrori, ma non voglio, perché c'è anche un'altra litania del bene, la litania del popolo che si raccoglie nel proprio silenzio per custodire la propria dignità e la propria felicità.

Mentre ti scrivo, sento bambini ridere e giocare, sento la musica che le mamme ascoltano mentre preparano il pranzo, sento la chitarra dei giovani che sono impegnati in prove di innamoramento, sento due maestre che stanno leggendo ad alta voce i nomi dei bambini della scuola che apriremo giovedì per tutti i bambini sfollati del nostro quartiere: non vogliamo lasciar fuori nessuno!

Il popolo del Myanmar sa vivere nel silenzio: ne ha fatto una spiritualità, e nel silenzio del proprio dolore trova la forza di tenere lontana la violenza e gli abusi con cui vogliono essere imprigionati e violentati.

"Nel nostro silenzio vinciamo sempre", questo è quanto mi ha detto un mamma che vive con noi.

Qui al Centro dove vivo, ogni giorno, da un anno, prego e celebro l'Eucaristia con persone che non hanno dove posare il capo. Ogni giorno, da un anno, mangio con persone che non hanno dimora. Ogni giorno, da un anno, scherzo con bambini la cui famiglia è stata spaccata, divisa dal conflitto, perseguitata, uccisa.

Ed ogni giorno, in questo silenzio veramente contemplativo, c'è spazio per la gioia e la speranza, per il sorriso e per la gratitudine. Ogni giorno vivo con un popolo che si nutre della gratitudine di quanto respira e assapora, della gratitudine per un saluto e un "grazie" detto in onestà. Ogni giorno vivo con un popolo che rende ancora possibile il vivere quotidiano, perché in un tempo dove tutto il sistema nazione è collassato, dove non esiste più alcuna forma di governo e controllo, dove non è più assicurata la cura di base della salute, esiste la quotidianità della generosità e della cura reciproca, della fiducia che l'altro non mi sarà nemico, ma amico, che ci proteggeremo a vicenda, e che in questo proteggersi accoglieremo i rischi, ma anche tutto il bene, di vivere l'uno per l'altro.

Il popolo del Myanmar, nel suo silenzio, sa abitare il dolore. Guardo a questo popolo con un senso di ammirazione e rispetto che non avevo mai provato prima in vita mia. E’ un popolo che attira affetto, che non può che farsi amare. 

 

Penso a questo popolo come al popolo delle Beatitudini.

Beati i poveri in spirito, e beato il popolo del Myanmar che nella sua impotenza davanti al male, sa che il suo cuore è una forza inviolabile, impenetrabile.

Beati quelli che sono nel pianto, e beato il popolo del Myanmar che nelle sue famiglie spaccate e divise dalla violenza, piange per "irrigare il suo futuro", per dare gioia ai figli e alle figlie di una terra che piange come un gesto di intimità con la propria storia.

Beati i miti, e beato il popolo del Myanmar che non alza la voce, che guarda alla morte con la stessa tenerezza con cui si guarda una sorella amata, da sempre vicina, la sorella più fedele, quella che fino ad ora non ha ancora tradito alcuna delle proprie promesse.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, e beato il popolo del Myanmar che sa bene che la giustizia non è un diritto ereditato dalla storia, ma un cammino difficile e doloroso, una scelta di vita per la quale bisogna essere disposti anche a morire.

Beati i misericordiosi, e beato il popolo del Myanmar, che non chiede vendetta, non la desidera e non la stima, ma chiede solo di poter vivere nella pace e di essere lasciato nella pace.

Beati i puri di cuore, e beato il popolo del Myanmar, con cui è bello vivere, e da cui imparo cosa sia il perdono, da cui imparo cosa sia la gioia delle cose semplici, da cui imparo cosa sia la pazienza, cosa sia l'amore che tutto copre, e con cui sto scoprendo cosa sia la felicità!

Beati gli operatori di pace, e beato il popolo del Myanmar, perché dal proprio sangue ha imparato a fare la pace, ha imparato a desiderarla per tutti, e beato il popolo del Myanmar perché ogni giorno non prega solo per la pace per sé, ma prega per la pace dei popoli, per la pace dell'umanità, perché la pace è bella.

Beati i perseguitati per la giustizia, e beato il popolo del Myanmar, perchè in questa persecuzione impara l'unità, vive la generosità, insegna la perfetta letizia.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male, e beato il popolo del Myanmar che sa sperare nel bene, che sa parlare il vocabolario del Regno dei Cieli. Beato il popolo del Myanmar che sa parlare di amore, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di riconciliazione, e quando ne parla dice la verità. Sa parlare di fedeltà, e quando ne parla dice la verità. 

 

 


Il popolo del Myanmar è timido, si vergogna quando è al centro dell'attenzione, si imbarazza davanti alle lodi. Il popolo del Myanmar è forte e delicato: ha una forte delicatezza.

Sa amare con fedeltà e si lascia amare con docilità, ma richiede di essere guardato e amato con la stessa delicatezza con cui ama, perché ha troppe ferite.

Ieri sera, tardi, dalla stanza in cui scrivo adesso, sentivo le voci delle famiglie che pregavano il rosario: una voce che spaccava il buio, una preghiera che penetrava la tenebra illuminandola. Ecco come immagino il silenzio del popolo del Myanmar: parla nel buio, parla con la tenebra, perché la sa vivere, e cioè sa illuminarla.

Ti scrivo queste righe con una richiesta: che un popolo così bello non cada nel nostro silenzio.

Per favore: parlane! Parla di questo popolo con chiunque: al lavoro, in famiglia, con gli amici, a scuola, al bar, con i tuoi compagni di squadra, con il tuo fidanzato o la tua fidanzata, durante le tue omelie, con il medico di famiglia. Con chiunque.

Se puoi, parlane! Con delicatezza, perché questo popolo ha una lezione importante da dare alla storia dell'umanità: questo popolo, come pochi, incarna il discepolo del Regno dei Cieli nella storia, che reso seme, nella terra cade e muore, ma dona vita.

Parlane, perché parlarne è un'opera di pace, e "un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (Gc 3,18).

 

Un missionario in Myanmar