Ho letto con interesse e coinvolgimento il recente articolo di Vito
Mancuso del 29 marzo sul suo sito, dal titolo “Sulle
armi e la loro necessità”. Vorrei evidenziare quelli che
ritengo limiti e contraddizioni del ragionamento sviluppato da
Mancuso.
Innanzitutto, pur
parlando di armi, sarebbe bene “disarmare” il linguaggio: davvero
ci siamo messi tutti ad “armare la propria” mente? Davvero ci
informiamo solo per “acquisire
munizioni cognitive per bombardare con le nostre parole le postazioni
avversari”? Abbiamo
visto con la pandemia come sia facile – ma anche pericoloso e
controproducente – fare ricorso al linguaggio
della guerra anziché a quello della cura: non
mi pare fecondo utilizzarlo anche per un serio dibattito pubblico.
Non si rischia in questo modo di ergere a paradigma la logica del
“discorso di odio”? Inoltre mi pare si venga così a
creare
un cortocircuito con la conclusione del ragionamento di Mancuso: come
ipotizzare “un investimento [dei governi] ancora più importante
riservando all’educazione della coscienza il doppio di quanto
investono per le armi”, se ogni acquisizione di nozioni –
presupposto
per un’educazione della coscienza –
è vista come incetta di “munizioni cognitive per bombardare”?
Personalmente,
e non mi pare proprio di essere l’unico, leggo e mi informo per
cercare di capire, sia gli eventi che le loro conseguenze sulle
persone, sul loro modo di pensare e di agire; leggo e mi informo per
mettere alla prova le mie convinzioni, per discernere cioè che
maggiormente favorisce la pace giusta, la dignità di essere umano,
la fratellanza universale.
Trovo
fuorviante
il riferimento a “l’insegnamento
di Moro e di Campanella (e di molti altri che prefigurarono lo stato
ideale, a partire da Platone)” per
ribadire che perfino nel mondo dell’utopia le armi sono previste e
necessarie in quanto “nello
sforzo di ricercare la pace e l’armonia sopra ogni altra cosa non
si può evitare di fare i conti con la realtà e con il male che essa
purtroppo contiene, se si vuole essere responsabili”. Perché,
invece di prendere esempi nel mondo immaginario, non
ha citato persone che hanno fatto sì i conti con la realtà e con il
male che contiene, ma lo hanno fatto molto realisticamente e in modo
nonviolento? Non sembra a Mancuso che Gandhi o Martin Luther King o
altri “nonviolenti attivi” avrebbero qualcosa da dire ancora
oggi, forse ancor più, almeno
su
questo argomento, di Moro e Campanella? Così
si terrebbe anche conto che le armi di cui parlavano Platone, Moro e
Campanella non sono neanche lontanamente paragonabili non solo agli
odierni ordigni nucleari ma neanche alle armi “convenzionali”.
Mancuso
inoltre sembra ignorare che la stessa legislazione italiana, nel
lungo iter che ha preceduto e seguito la Legge 772/1972 sul
riconoscimento dell’obiezione di coscienza al
servizio militare ha
stabilito che il sacro dovere di difesa della patria può essere
assolto anche senza armi? È al corrente che questo “sacro dovere”
non è venuto meno neanche dopo l’abolizione del servizio di leva
obbligatorio?
La
sua domanda “come ci si difende senza le armi?” è artificio
retorico oppure ignoranza di tutta l’ormai secolare prassi (e
relativa ampia
letteratura)
sulla “difesa popolare nonviolenta”? O entrambe le cose? È al
corrente che uno stato sovrano come il Costarica ha rinunciato
all’esercito più di settant’anni fa e gode di un
tenore
di vita nettamente migliore di quello dei paesi confinanti?
Le
mie sono osservazioni ingenue, ma confido venga loro riconosciuta la
nonviolenza che intendono esprimere e alimentare.