SCENARI
C’È POSTO PER LA PACE?
Dario Fabbri e Guido Dotti in dialogo, moderati da Costanza Spocci
Vicenza – Festival biblico – Venerdì 27 maggio 2022
Intervento di Guido Dotti
Alla luce degli eventi di questi ultimi mesi, la domanda sull’esistenza o meno di un posto per la pace nel mondo appare quanto mai peregrina: non c’è posto per la pace, né oggi né a breve-medio termine. La pace appare pura u-topia, non-luogo, realtà contraddetta a ogni istante: un sogno senza casa, senza un minimo spazio in cui dimorare.
Eppure, proprio per questo può valer la pena tornare a un testo che ha segnato una svolta decisiva nel magistero della Chiesa cattolica, la Pacem in terris, che così si concludeva: “Queste nostre parole, che abbiamo voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo. […] Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà” (§ 89).
In verità, quella frase lapidaria – “se vuoi la pace, prepara la guerra” – che ci è stata trasmessa fin da ragazzini come fosse un’eredità da accettare senza beneficio di inventario, è rimasta nel nostro patrimonio genetico individuale e collettivo, come constatiamo amaramente anche in questi giorni. Ma è significativo che già Paolo VI e poi Giovanni Paolo II, nei messaggi in occasione dell’annuale ricorrenza della “Giornata mondiale della pace”, ne abbiano ripreso più volte la prima parte per declinare in maniera opposta la seconda: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” (1972), “Se vuoi la pace, difendi la vita” (1977), “Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo” (1991), “Se vuoi la pace, vai incontro ai poveri” (1993)… Questo a ricordare come l’insistenza di papa Francesco, dai primi mesi di pontificato fino alla Fratelli tutti e agli instancabili appelli odierni in favore della pace, venga da molto lontano – dal Vangelo – e da molto in profondità, dal cuore stesso della Chiesa.
Così il paragrafo di apertura del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2021 di papa Francesco crea un collegamento esplicito tra cura e pace: “La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente”.
All’inizio della prima ondata di contagi – e di morti – causati dal Covid-19, con pochi altri avevo cercato di “disarmare” la retorica della guerra al virus con la metafora della cura: in pieno sforzo di contrasto al diffondersi della pandemia, soprattutto da parte di chi sopportava il peso maggiore della fatica e dei rischi, veniva la richiesta di pensare in termini di cura e non di guerra alle forti criticità presenti e all’incerto futuro che ci attende come società e quindi anche come chiesa.
La pandemia ci ha mostrato con ogni evidenza che non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. Ora purtroppo anche noi come molti altri popoli su tutta la terra, siamo in guerra, ma continuiamo soprattutto a essere in cura. E la cura abbraccia ogni aspetto della nostra esistenza chiedendo a ciascuno di dare il meglio di sé, dispiegando le proprie risorse umane ed etiche: forza, perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia… Doti sovente impiegate anche in guerra, ma insufficienti in quel contesto: infatti la guerra, a differenza della cura, necessita soprattutto di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro… La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza…
Rispetto per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano, per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti” – non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14).
In un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non coinvolgimento nelle opere del potere e della forza. E similmente avviene ancora oggi là dove la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la solidarietà dei poveri e degli artigiani di pace. Ancora oggi verrebbe da ripetere con il salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal 120,6-7).
La pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa, quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non “scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.
C’è bisogno di artigiani di pace; questo termine non suona a noi così immediatamente familiare, ma in altre lingue, ad esempio il francese, è il termine con il quale si traduce la beatitudine che noi definiamo con il termine “operatori di pace”. Ci sono caratteristiche dell’artigiano che vediamo come possano essere significative anche per pensare e generare un mondo aperto. Non vorrei idealizzare troppo la figura dell’artigiano, mi sembra però che in essa ci sia la dimensione dell’apprendistato all’operare.
Io credo che la capacità di generare la pace, è un’arte che si apprende, che si impara; è importante che questa generazione di un mondo aperto, interagisca con le varie strutture, che regolano i rapporti tra gli esseri umani e il loro vivere in società; Nella Fratelli tutti Papa Francesco collega gli artigiani di pace con la necessità di una architettura della pace.
Molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere gli artigiani veri, coloro che hanno due caratteristiche fondamentali: la prima è quella di aver appreso un’arte, una maestria diciamo; la seconda è quella di avere cura dei singoli oggetti, delle singole opere che vanno a realizzare. In realtà l’artigiano nasce, se così si può dire, dall’essersi messo alla scuola andando a bottega da qualcuno che può essere all’interno della famiglia, oppure presso un maestro al di fuori, che insegna i segreti del mestiere, soprattutto attraverso l’esempio. S’impara l’uso degli strumenti più appropriati, la scelta dei materiali, la pazienza nell’aspettare e nel capire qual è il momento giusto per realizzare la successione degli interventi sull’oggetto.
Questa è la parte formativa dell’artigiano; se volete è l’imparare a pensare in un dato modo il rapporto con il mondo, il rapporto con gli oggetti, il rapporto con un oggetto che ancora non c’è, ma che deve nascere. L’altra caratteristica dell’artigiano è che, appresa l’arte, la applica con cura agli oggetti e alle persone.
Dobbiamo riflettere su questa dimensione di non produrre in serie. La bottega non è una catena di montaggio, non è una macchina che produce cose, anche se si serve di macchine. Ogni pezzo prodotto, anche quando è prodotto con uno stampo, è un pezzo unico perché poi l’artigiano non solo lo rifinisce ma, avendo in mente la tipologia della persona che prenderà in mano quell’oggetto, lo elabora a partire da una doppia cura, la cura dell’oggetto e la cura del futuro utilizzatore dell’oggetto che sovente è anche il committente, colui che glielo ha ordinato. Pensate ai calzolai che facevano le scarpe su misura, sapevano fare le scarpe, ma poi le adattavano a delle persone in particolare. C’è questa cura per l’oggetto perché diventi ciò che deve essere, e poi c’è una cura che continua nel tempo e quindi diventa abilità, maestria, arte del saper riparare, del saper prendersi cura fino alla fine dell’oggetto.
Ulteriori spunti di riflessione / dibattito
- Le armi sono prodotte in serie, gli strumenti di pace sono pezzi unici
- La guerra è sempre uguale, anche se le armi diventano sempre più distruttive
- La pace è sempre diversa, perché le persone, le culture, le società, le stagioni sono sempre diverse
- Un cadavere è sempre uguale
- Una persona viva è sempre unica e diversa, dalle altre e da se stessa di un tempo.
- Io credo che, nel pensare a un mondo nuovo, la presenza e l’attività di artigiani di pace, artigiani di riconciliazione, artigiani di questa “generatività” verso un mondo nuovo, sia determinante: come si fa ad avere questa capacità di apertura, se non se ne sanno maneggiare gli strumenti che permettono e facilitano l’opera?