99
anni anni fa finiva per l’Italia la I
guerra mondiale.
Quando
ero piccolo questa data era ricordata come “Anniversario della
vittoria”. Ma “dov’è la vittoria”? Come si può chiamare
“vittoria” una “inutile strage”? Visitando anche
ieri
il cimitero di Magnano ho ricontato
i
46
cippi di giovani caduti nel conflitto del “15-18”. Quarantasei
morti su una popolazione complessiva di 1.841 abitanti (censimento
del 1911)! E percentuali simili si ritrovano in tanti, troppi Comuni
italiani.
Personalmente
ho anche conosciuto diversi “Cavalieri di Vittorio Veneto” e da
nessuno di loro ho mai ascoltato parole enfatiche sulla “vittoria”:
sempre e solo ricordi di sofferenze, di compagni morti e feriti, di
gesti eroici compiuti non per uccidere un maggior numero di nemici
bensì per cercare di salvare commilitoni in difficoltà. Per loro
l’anniversario celebrava la “fine della guerra”, non la
“vittoria”.
Poi,
man mano che l’Europa veniva sanando le laceranti ferite dei due
conflitti mondiali, il 4 novembre in
Italia era
celebrato come “Festa delle Forze armate”. Ma
come dimenticare che la I guerra mondiale è stata anche l’ultima
in cui il numero dei morti tra i combattenti è risultato maggiore
quello dei civili? In seguito le “forze armate” hanno sempre
subìto meno perdite dei “deboli disarmati”.
Al
cimitero militare americano di Nettuno, papa Francesco ha
recentemente pronunciato parole dure contro la guerra, “strage inutile”, “distruzione di
noi stessi”. "Quando tante volte nella storia gli uomini pensano di fare una guerra sono
convinti di portare un mondo nuovo, di fare una primavera, e, invece,
finisce in
un
inverno, brutto, crudele, il regno del terrore”.
Sì,
la guerra è il crudele inverno dell’umanità.
A
tutti i caduti di tutte le guerre (mai giuste, sempre inutili):
quelle finite e quelle in corso, quelle mondiali e quelle “a
pezzetti”, “a puntate”, “su commissione”… A chi è caduto
con onore e a chi è stato fucilato con disonore, agli “uomini
contro” e alle donne rimaste sole, alle persone calcolate come
“effetti collaterali” e ai bambini-soldato dedico queste
riflessioni sulla pace, tratte da un mio contributo a un
volume collettivo di prossima uscita in inglese sul Pellegrinaggio
di Giustizia e Pace promosso dal Consiglio ecumenico delle
Chiese.
Rispetto
per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano,
per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti”
– non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la
guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo
giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la
Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è
l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai
discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14).
Sì, per i credenti nel Dio di Abramo e di Gesù di Nazaret, il
tema della pace non appartiene primariamente all’ordine etico,
morale o sociale – e tanto meno all’ambito strategico o tattico –
ma è essenzialmente di ordine rivelativo, sta nello spazio della
fede, ha valenza cristologica: narra in quale Dio noi crediamo,
manifesta di quale Signore siamo discepoli. E questo non soltanto
perché la pace è legata alla venuta del Messia, ma perché in
riferimento a Cristo Signore essa riceve la pienezza del suo
significato e trova un criterio di giudizio.
In
un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio
e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa
primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e
dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di
magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle
guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non
coinvolgimento nelle opere del potere e della forza, nelle opere del
principe di questo mondo. E similmente avviene ancora oggi là dove
la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato
l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la
solidarietà dei poveri e degli operatori di pace. Si pensi, per
esempio, alla chiesa d’Algeria e ai suoi martiri, come i sette
monaci trappisti che, prima di essere rapiti e uccisi da chi
pretendeva di “agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam”,
così pregavano quotidianamente: “Signore, disarmali! Signore,
disarmaci!”. Sì, ancora oggi verrebbe da ripetere con il
salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono
per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal
120,6-7).
La
pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita
giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa,
quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che
si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il
nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non
“scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è
brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.