Per esprimere la mia gratitudine al Signore per avermi fatto il dono di potermi ispirare al suo magistero spirituale, ripropongo il testo del mio intervento alla giornata dedicata a
"Matta el Meskin a 10 anni dalla sua dipartita"
svoltasi ad Alessandria d'Egitto il 28 luglio 2016, su iniziativa del vescovo Anba Epiphanius, discepolo di Abuna Matta el Meskin e allora superiore di Deir Abu Makar. Questo testo vuole anche onorare la memoria dell'amato Anba Epiphanius, tragicamente scomparso proprio due anni dopo quella giornata di intensa spiritualità.
MATTA EL MESKIN A 10 ANNI DALLA DIPARTITA
Alexandria, Egitto, 28 luglio 2016
Intervento
di fr. Guido Dotti, monaco di Bose
Desidero
innanzitutto esprimere la mia profonda gratitudine al Signore per
avermi fatto il dono di essere in mezzo a voi oggi. È il Signore
Gesù Cristo che ci raduna oggi, uniti nell’ascolto della sua
Parola e della luminosa testimonianza offerta dal suo discepolo abuna
Matta el Meskin. E
la mia gratitudine va anche agli organizzatori, che hanno voluto che
aggiungessi la mia povera voce a quella di persone che hanno
conosciuto e amato abuna Matta ben più di quanto abbia potuto farlo
io.
Inizierò
confessandovi confessare una verità che alcuni di voi conoscono
bene: io non ho mai incontrato abuna Matta. Non l’ho incontrato
durante il mio primo soggiorno di otto giorni a Deir Abu Makar nel
1985, non l’ho incontrato quando ci sono ritornato nel 1997. Non
l’ho mai incontrato, eppure credo di poter dire che l’ho sempre
conosciuto,
da quando ho iniziato il mio cammino monastico a Bose quasi 45 anni
fa. L’ho conosciuto perché ne ho letto alcuni scritti già nel
1972: ero da poco entrato come novizio nel Monastero di Bose e fr
Enzo Bianchi, il priore, mi diede tra i testi da leggere un articolo
di abuna Matta che aveva come titolo (in italiano) Ecumenismo
o coalizione?,
dicendomi: “Ecco, questo è l’ecumenismo come tentiamo di viverlo
a Bose e questo è il monachesimo del deserto egiziano a cui ci
ispiriamo!”.
Come
emerso durante i giorni nel Convegno che il mio Monastero di Bose ha
dedicato ad abuna Matta el Meskin lo scorso mese di maggio,
quell’articolo – che in francese aveva il titolo Unité
chrétienne
– era stato anche all'origine
del primo incontro tra il suo futuro discepolo Wadid e abuna Matta el
Meskin a Wadi Rayyan...
Nell’ottobre
del 1985 ebbi il grande dono di poter trascorrere alcuni giorni a
Deir Abu Makar. Come accaduto anni prima al priore fr Enzo Bianchi,
non potei incontrare abuna Matta, convinto nella sua umiltà che
“solo l’incontro con il Signore resta fondamentale per ogni
cristiano e per ogni monaco”. Ma lo spirito che lo animava mi
giunse attraverso il vissuto dei suoi monaci – parabola vivente di
cosa significa la sequela cristiana nella via monastica – e per me
in particolare grazie ai dialoghi fraterni con fr. Wadid, uomo di
pace e di accoglienza, capace allora come oggi di trasmettere a
quanti lo accostano l’intensa ricerca della comunione nell’amore
che arde in lui come ardeva nel suo padre spirituale.
Da
quel primo incontro, che era stato preceduto da una visita del mio
priore fr. Enzo, sia io che altri miei fratelli siamo tornati più
volte a Deir Abu Makar, per confrontarci con una testimonianza
monastica che ci riporta all’essenziale della nostra vocazione, per
abbeverarci alle sorgenti del monachesimo cristiano e per cercare di
leggere insieme ad altri fratelli nella fede “ciò che lo Spirito
Santo dice alle chiese”. Non solo, l’anno successivo con la
nostra casa editrice nata solo tre anni prima, decidemmo di iniziare
a pubblicare in italiano alcuni scritti di abuna Matta el Meskin:
l’antologia Communion of love
uscita in USA ci servì da riferimento per assemblarne una con il
medesimo titolo in italiano, nella quale però inserimmo altri testi,
a cominciare dall’articolo sull’unità dei cristiani ricordato
prima. Mi occupai della traduzione dall’inglese e dal francese (non
conosco infatti l’arabo, come potete costatare voi stessi), ma
traducendo mi nutrivo spiritualmente di quei testi. In particolare
vorrei ricordare il capitolo dedicato a Come
leggere la Bibbia
che sembrava ai miei occhi ridire con le parole e l’approccio
proprio dei padri del deserto quello che avevo imparato a Bose circa
la lectio
divina,
la lettura spirituale della sacra Scrittura, grazie al libro di fr
Enzo Bianchi, Pregare
la parola.
Due anni dopo (1988) fu la volta della traduzione e pubblicazione del
fortunatissimo Consigli per la preghiera
che univa due testi, usciti l’uno in francese e l’altro in
inglese. Anche questo è diventato per me un libro-guida che mi ha
accompagnato nel mio cammino monastico.
Come
vedete, il cammino che ci ha condotto a organizzare un Convegno su
abuna Matta a Bose ha origini molto lontane, ma ha iniziato a
diventare progetto concreto con la visita di S.S. papa Tawadros a
Bose il 16 maggio 2013 (giorno successivo alla memoria di san Pacomio
nel nostro calendario liturgico), accompagnato da Anba Kyrolos di
Milano e da altri Vescovi, tra cui Anba Epiphanius, discepolo e
successore di Matta el Meskin alla guida di Deir Abu Makar.
Lì una
profonda consonanza spirituale ha avuto il dono di potersi
manifestare in sguardi, parole, scambi fraterni. Così, quando Anba
Epiphanius è tornato a Bose lo scorso settembre per tenere una
conferenza al nostro Convegno internazionale ortodosso dedicato alla
Misericordia, è stato naturale progettare assieme a lui e con la
benedizione di papa Tawadros il Convegno dedicato a Matta el Meskin.
In quell’occasione Anba Epiphanius non ha solo presentato la
dottrina di abuna Matta sulla misercordia, ma ha parlato a noi monaci
di Bose da cuore a cuore, come un amico parla a un amico, ci ha fatto
sentire fratelli e sorelle suoi e dei monaci di Deir Abu Makar, in
qualche modo, anche se indegnamente, discepoli di abuna Matta.
Vorrei
allora riprendere alcune parole pronunciate da fr Enzo Bianchi in
occasione del già menzionato Convegno che il Monastero di Bose ha
voluto dedicare a Matta el Meskin a dieci anni dal suo passaggio
dalla morte alla Vita. Le riprendo perché esprimono come io non
saprei fare quello che io stesso ho sperimentato e sperimento ancora
ogni volta che ho la grazie di poter tornare a Deir Abu Makar e ora
anche di dialogare con l’amato Anba Epiphanius.
Dagli
incontri fraterni con i monaci di San Macario è sempre emersa in
tutta la sua trasparenza una vita che ha come fondamento il
nutrimento quotidiano della parola di Dio, unico cibo che sostiene la
speranza del regno di Dio. «Quando chiesi a Matta el Meskin di
insegnarmi a pregare – mi confidò una volta un monaco – l’abba
mi disse di dargli la mia Bibbia. Aprì il libro, cercò l’inizio
della Lettera agli Efesini, si alzò, levò gli occhi al cielo, lesse
ad alta voce il primo versetto, tacque, ripeté due volte ogni
parola, poi rilesse tutto daccapo. Passò al versetto seguente, alzò
la voce, supplicò Dio di perdonarlo, canticchiò il versetto, la
ripeté a bassa voce, alzò le mani, pianse... E fece così fino alla
fine del capitolo. Si era completamente dimenticato della mia
presenza accanto a lui!».
Ma
la Scrittura giunge attraverso una tradizione ed è per questo che –
accanto ad essa – i detti degli abba del deserto e le opere dei
padri della chiesa sono per i monaci di Scete cibo quotidiano nella
lettura, nello studio, nella contemplazione. Così era solito
ripetere abuna Matta: «Quando leggiamo un apoftegma, a noi deve
accadere questo: prima lo Spirito ci convince che la loro esperienza
è vera, poi dobbiamo lottare per fare nostra questa loro esperienza,
perseverando nella lotta fino alla morte, cioè pronti a morire per
rimanere fedeli al comandamento che lo Spirito ci ha dato … Se il
monaco, prima ancora di ricevere l’abito, è pronto a rimanere
incondizionatamente fedele, fino alla morte, se non ha paura della
morte, allora la sua vita monastica sarà spiritualmente riuscita. Ma
se teme per il suo corpo, se rifiuta di correre rischi, allora la sua
vita monastica sarà molto penosa. Peggio ancora: sarà assai
difficile per lui essere trasformato dallo Spirito in un uomo nuovo».
Ma
c’è un elemento che mi sento di dover aggiungere in modo molto
personale. Quando vado a Deir Abu Makar, sono attirato in modo
particolarissimo dalle reliquie di Giovanni Kolobos, il padre del
deserto che più mi è caro e lì, nella chiesa di Anba Ischerion,
chiusi gli occhi e raccolto in preghiera, mi sembra di ritrovarmi nel
IV secolo, in mezzo a quegli abba che hanno trasformato la loro vita
in una pagina vivente di Vangelo.
Un’esperienza
analoga l’ho provata nel 2007, quando ho guidato un gruppo di 37
monachi e monache cattolici della Africa occidentale francofona in un
pellegrinaggio nei monasteri copti, abbiamo avuto il dono di
ascoltare una meditazione di abuna Wadid su Macario il Grande.
Ebbene, ascoltandolo mentre parlava di san Macario il Grande, del suo
discernimento e della sua misericordia, non avrei saputo dire se
stesse parlando del grande padre del deserto e di abuna Matta: nel
mio cuore non scorgevo differenze.
Per
questo non mi ha sorpreso il fatto che in Italia, quando
si diffuse la notizia della scomparsa di Matta el Meskin, vi fu chi
parlò della morte di un “padre del deserto”. In realtà la
vicenda umana e cristiana di questo monaco conclusasi nella pace dopo
ottantasei anni è stata ed è la prova che il monachesimo dei padri
del deserto è ancora vivissimo e fecondo. Così,
grazie alla sua saldezza nella fede e all’indomita speranza nella
risurrezione, abuna Matta riposa ora là dove il suo cuore ha sempre
desiderato essere: nella pace di Dio.
Una
pace di cui il “giardino” di San Macario è anticipazione e
promessa.
Shukran شكرا