“Un
paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese
vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante,
nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta
ad aspettarti”.
Questa
frase de La luna e
i falò
di Cesare Pavese mi
ha sempre affascinato e a lungo immalinconito: ne percepivo e ne
percepisco tutta la densa umanità, ma la sentivo come una verità
che non mi apparteneva né poteva appartenermi, essendo nato e
cresciuto in città.
I
miei genitori venivano sì entrambi da un paese del lago di Como e
nel secondo dopoguerra, all’indomani delle nozze, si erano spostati
a Milano per lavoro, ma io non riuscivo a sentire che il loro paese
mi appartenesse e che io gli appartenessi. Ogni anno trascorrevo
sulle rive del lago le vacanze scolastiche (a dir la verità il
grosso delle ore le passavo in acqua o in bicicletta), tutti i
parenti più stretti abitavano là, quando ci andavo ero riconosciuto
come “il figlio del B. e dell’A.” (come ancora si usa nei paesi
del Medio Oriente), ne parlavo il dialetto (rigorosamente solo quando
eravamo sul posto oppure quando, a Milano, parlavamo di persone o
eventi del paese), eppure quel paese non poteva per me essere il
luogo capace di darmi “il gusto di andarsene via”.
Poi,
prima dei vent’anni, me ne andai via da Milano per un altro paese,
che però non avrebbe mai potuto diventare
il
mio, perché
non mi aveva visto da piccolo e io non lo avevo contemplato con occhi
di bambino. Fu proprio lì che conobbi meglio gli scritti di Pavese e
che mi resi conto poco alla volta che avevo avuto la fortuna di
vivere il paese in
città:
come un vero paese, Milano mi aveva dato il gusto di andarmene via,
mi aveva fatto sentire di non essere solo, sapevo che nella gente,
nelle strade e nei cortili c’era qualcosa di mio che restava lì ad
aspettarmi anche quando non c’ero.
Non
so se sia un privilegio raro, ma io non ho mai sentito la città come
“anonima”: per me aveva il volto e il nome di persone e luoghi
precisi, concentrati ma non racchiusi nel perimetro di un quartiere.
L’aver
trascorso gli anni prescolari in un vecchio stabile del centro città
sul cui cortile interno si affacciavano tutti i retrobottega
dell’isolato mi ha permesso di fare acquisti anche da solo, senza
uscire sul marciapiede, in quello che per quel
bambino di cinque anni che ero si rivelava come
un immenso centro commerciale ante
litteram.
A
qualcosa ha giovato l’aver sempre potuto andare a scuola a piedi,
come a piedi andavo con gli amici allo stadio, mentre per i tragitti
più lunghi verso
i
campi di calcio in periferia la bicicletta funzionava benissimo.
L’aver
avuto compagni
di scuola con
i genitori che lavoravano in portinerie,
o nella bottega del calzolaio o dell’ombrellaio, o come barbiere,
aveva fatto sì che nessun condominio
mi
intimidisse. Anche l’aver giocato in una squadra di calcio in cui i
compagni erano per metà amici dell’oratorio e per l’altra metà
compagni di scuola mi ha consentito di coltivare una certa
familiarità paesana al cuore di una metropoli.
Tutto
questo – e tanto altro di cui non ho ancora preso piena
consapevolezza oltre quarant’anni dopo “essermene andato” –
sono debitore soprattutto
ai tanti amici che a Milano sono rimasti o che a Milano ritornano non
appena l’amicizia ci richiama per condividere una gioia o un
dolore.
Tutto
questo fa parte del
dono raro di aver vissuto “il paese in città”.
Con
profonda gratitudine ci
tenevo a scriverlo oggi, 27 agosto, anniversario del giorno in cui
Cesare Pavese ci ha lasciato, chiedendo di perdonarlo e di non fare
troppi pettegolezzi.
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