lunedì 27 agosto 2018

Il paese in città


Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Questa frase de La luna e i falò di Cesare Pavese mi ha sempre affascinato e a lungo immalinconito: ne percepivo e ne percepisco tutta la densa umanità, ma la sentivo come una verità che non mi apparteneva né poteva appartenermi, essendo nato e cresciuto in città.
I miei genitori venivano sì entrambi da un paese del lago di Como e nel secondo dopoguerra, all’indomani delle nozze, si erano spostati a Milano per lavoro, ma io non riuscivo a sentire che il loro paese mi appartenesse e che io gli appartenessi. Ogni anno trascorrevo sulle rive del lago le vacanze scolastiche (a dir la verità il grosso delle ore le passavo in acqua o in bicicletta), tutti i parenti più stretti abitavano là, quando ci andavo ero riconosciuto come “il figlio del B. e dell’A.” (come ancora si usa nei paesi del Medio Oriente), ne parlavo il dialetto (rigorosamente solo quando eravamo sul posto oppure quando, a Milano, parlavamo di persone o eventi del paese), eppure quel paese non poteva per me essere il luogo capace di darmi “il gusto di andarsene via”.






















Poi, prima dei vent’anni, me ne andai via da Milano per un altro paese, che però non avrebbe mai potuto diventare il mio, perché non mi aveva visto da piccolo e io non lo avevo contemplato con occhi di bambino. Fu proprio lì che conobbi meglio gli scritti di Pavese e che mi resi conto poco alla volta che avevo avuto la fortuna di vivere il paese in città: come un vero paese, Milano mi aveva dato il gusto di andarmene via, mi aveva fatto sentire di non essere solo, sapevo che nella gente, nelle strade e nei cortili c’era qualcosa di mio che restava lì ad aspettarmi anche quando non c’ero.
Non so se sia un privilegio raro, ma io non ho mai sentito la città come “anonima”: per me aveva il volto e il nome di persone e luoghi precisi, concentrati ma non racchiusi nel perimetro di un quartiere. L’aver trascorso gli anni prescolari in un vecchio stabile del centro città sul cui cortile interno si affacciavano tutti i retrobottega dell’isolato mi ha permesso di fare acquisti anche da solo, senza uscire sul marciapiede, in quello che per quel bambino di cinque anni che ero si rivelava come un immenso centro commerciale ante litteram. A qualcosa ha giovato l’aver sempre potuto andare a scuola a piedi, come a piedi andavo con gli amici allo stadio, mentre per i tragitti più lunghi verso i campi di calcio in periferia la bicicletta funzionava benissimo. L’aver avuto compagni di scuola con i genitori che lavoravano in portinerie, o nella bottega del calzolaio o dell’ombrellaio, o come barbiere, aveva fatto sì che nessun condominio mi intimidisse. Anche l’aver giocato in una squadra di calcio in cui i compagni erano per metà amici dell’oratorio e per l’altra metà compagni di scuola mi ha consentito di coltivare una certa familiarità paesana al cuore di una metropoli.





Tutto questo – e tanto altro di cui non ho ancora preso piena consapevolezza oltre quarant’anni dopo “essermene andato” – sono debitore soprattutto ai tanti amici che a Milano sono rimasti o che a Milano ritornano non appena l’amicizia ci richiama per condividere una gioia o un dolore.


Tutto questo fa parte del dono raro di aver vissuto “il paese in città”.
Con profonda gratitudine ci tenevo a scriverlo oggi, 27 agosto, anniversario del giorno in cui Cesare Pavese ci ha lasciato, chiedendo di perdonarlo e di non fare troppi pettegolezzi.






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