A margine della discussione sull'inginocchiarsi o meno da parte dei giocatori della nazionale italiana di calcio in segno di solidarietà con il movimento Black Lives Matter pubblico un mio intervento a un seminario sul Razzismo, svoltosi in Giappone nel settembre 2019 nell'ambito del Pellegrinaggio di Giustizia e Pace del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Il testo inglese è stato pubblicato in The Ecumenical Review 2019-12
RAZZISMO,
XENOFOBIA E MIGRAZIONI
IN
ITALIA, PAESE POST-CATTOLICO
Fr.
Guido Dotti, Monastero di Bose , Italia
Terra
e spaesamento
“Essere
istruite”, così rispondeva una adolescente di un campo di
rifugiati interni nello stato del Kachin in Myanmar a una domanda
del nostro Pilgrim
Team su
quale fosse “la vita migliore” che lei e le sue compagne si
auguravano per il proprio futuro. E aggiungeva: “Io, per esempio,
vorrei diventare musicista e poi… membro del Parlamento, così da
poter restituire la terra al nostro popolo che vi potrà vivere
coltivandola”. Come le sue amiche, aveva al massimo quattordici
anni e ne aveva trascorsi già sette in quel campo distante solo
alcune decine di chilometri dal villaggio natale. La determinazione e
la speranza di quelle ragazze – e di altri coetanei incontrati nei
vari campi visitati – sono stati per me e sono tuttora una chiave
di rilettura decisiva degli eventi che da decenni e in particolare in
questo ultimo anno attraversano il mio paese, l’Italia: un paese di
antica tradizione cristiana e cattolica ormai smarrita come identità
collettiva, una nazione che dalla sua nascita come stato unitario
(1861) è caratterizzata dalla migrazione – esterna e interna –
di milioni di suoi cittadini e ora, da alcuni decenni, anche
dall’immigrazione di persone provenienti dall’Est e dal Sud,
dalle terre al di là delle Alpi e del Mediterraneo.
“Terra
e spaesamento” sono perciò due ambiti che ben riassumono alcuni
tratti essenziali dell’identità italiana e quindi due lenti
attraverso le quali esaminare oggi il fenomeno del razzismo in un
paese che, come vedremo, potremmo definire “post-cattolico”.
Legame con la terra, cultura contadina da un lato e, dall’altro,
necessità di emigrare, desiderio di essere accolti e fatica
nell’accogliere: sono caratteristiche che accomunano gli italiani a
molte delle popolazioni visitate nel corso del Pellegrinaggio
di Giustizia e Pace
del Consiglio ecumenico delle Chiese, ben al di là delle evidenti
differenze di cultura, etnia, religione.
Un
paese etnicamente e culturalmente omogeneo?
Anche
le vicende della mia famiglia e la mia personale trovano risonanze
particolari nelle tematiche legate alla terra, all’emigrazione e al
razzismo. Una mia nonna nacque in Argentina alla fine del XIX secolo
da immigrati italiani, mentre i due miei nonni e mio padre da giovani
hanno lavorato per alcuni anni in altri paesi europei. A mia volta,
dopo aver avuto compagni di classe ebrei alle scuole medie e
superiori, ho vissuto come giovane novizio e studente in Svizzera
durante gli anni della campagna xenofoba in occasione del secondo
referendum popolare contro gli stranieri (ottobre 1974), mentre da
alcuni anni mi occupo in prima persona dell’accoglienza e
dell’inserimento in Italia di alcuni immigrati e richiedenti asilo
provenienti dall’Africa sub-sahariana, accolti dalla comunità
monastica di cui sono membro dal 1972. Tra i fratelli e le sorelle
del mio monastero – di sei diverse nazionalità e di svariate
regioni italiane – una è cittadina statunitense di origine
ucraina, mentre un fratello appartiene agli “italiani di seconda
generazione”, essendo nato in Italia da genitori dello Sri Lanka.
Un insieme di circostanze, comunque, per nulla rare oggi in un paese
che invece all’estero si è soliti considerare essenzialmente
uniforme dal punto di vista etnico.
Del
resto, sulla presunta secolare o addirittura millenaria omogeneità
etnica degli abitanti della penisola italica ci sarebbe molto da
dire, a cominciare almeno dal mitico sbarco di Enea e dei troiani
sopravvissuti alla distruzione della loro città, giunti ai lidi
italiani dopo essere stati prima respinti
e poi soccorsi
dalla regina Didone a Cartagine, come epicamente racconta Virgilio in
brani di tragica attualità dell’Eneide.
Da allora i Romani si intrecceranno con i vinti Etruschi, l’impero
si arricchirà culturalmente della saggezza dello spagnolo Seneca
come del dalmata Gerolamo, prima di cedere il potere ai “barbari”
Visigoti, mentre al sud della penisola, in Sicilia e sulle coste
adriatiche si succederanno nei secoli Bizantini, Saraceni, Arabi,
Normanni… In Sardegna orientale sarà la volta dei Catalani, che
lasceranno in eredità la lingua, ancora dominante nell’odierno
dialetto. Al nord Celti, Longobardi e Franchi si intrecceranno con le
variegate popolazioni locali, dando origine a inevitabili meticciati,
mentre quasi ogni secolo porterà lungo tutta la penisola una varietà
di popolazioni con usi, costumi, lingue ed etnie diverse – Unni,
Lanzichenecchi, poi Spagnoli, Francesi, Svevi… – tutte portatrici
di fecondi intrecci non solo culturali.
Anche
la lingua di Dante dovrà attendere la seconda metà del XX secolo
prima di diventare – grazie alla scuola pubblica obbligatoria, al
servizio militare universale e, soprattutto, alla diffusione della
radio e della televisione – la lingua realmente nazionale, finendo
per prevalere sui dialetti locali anche nelle classi sociali più
povere. Senza dimenticare che minoranze linguistiche – francofone,
allemanofone, occitane, albanesi, slovene… – permangono, più o
meno garantite, in alcune aree del paese.
Il
sorgere del problema razziale
È
tuttavia con l’inizio del XX secolo che i fattori legati
all’esigenza di avere nuove terre da coltivare e alla necessità di
emigrare avranno pesanti ricadute nel sorgere di pregiudizi razziali
e di pulsioni razziste. Fino ad allora le migrazioni nelle Americhe –
iniziate già nel XIX secolo, poco dopo l’unità d’Italia – e
in parte anche quelle stagionali nei paesi europei limitrofi
avvenivano per blocchi omogenei di conterranei che mantenevano legami
molto stretti tra loro anche nei paesi di arrivo: gli italiani
all’estero, come tutti gli immigrati, erano il più sovente vittime
di atteggiamenti razzisti da parte delle popolazioni locali, anche e
soprattutto a causa della lotta concorrenziale per le esigenze
vitali: la terra, la casa, il lavoro.
Ma
con le mire coloniali italiane in Eritrea e Somalia – iniziate già
negli ultimi decenni del XIX secolo – e soprattutto con
l’espansione degli interessi italiani in Libia e la conseguente
guerra italo-turca (1911-1912) che porterà alla conquista militare
di quel paese, le problematiche legate ai rapporti stabili con le
popolazioni arabe locali assumono caratteri sempre più marcati di
contrapposizioni razziali. Sarà però l’avvento del fascismo
(1922), la successiva invasione e occupazione dell’Etiopia
(1928-1936), la nascita dell’Africa Orientale Italiana (AOI) –
comprendente anche la Somalia – e la conseguente proclamazione
dell’Impero italiano (1936) a trasformare le questioni razziali in
manifesto razzismo. In questo frangente cruciale si rivelò
determinante il mutato atteggiamento della Chiesa cattolica nei
confronti del regime fascista, in conseguenza della firma dei Patti
Lateranensi e del Concordato (1929) tra la Santa Sede e lo Stato
italiano, che sigillavano il pieno riconoscimento del Regno d’Italia
da parte della Santa Sede e la fine del divieto per i cattolici di
prendere parte alla vita politica del paese (in vigore fino al 1919),
proclamando al contempo il cattolicesimo come “religione di Stato”.
Dal
“Manifesto della razza” alle Leggi razziali
“Il
primo provvedimento in materia razziale in Italia fu promulgato dal
governo Mussolini nell’aprile del 1937: esso vietava, comminando
pesanti pene detentive, ai cittadini italiani di ‘tenere relazione
d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale
Italiana’”.
Timore, quindi, di imbastardire la “razza” italiana e
preoccupazione di non favorire quella “assimilazione” perseguita
invece nei medesimi anni da Francia e Inghilterra e considerata una
minaccia alla purezza della razza bianca. In quest’ottica le stesse
autorità cattoliche – in particolare i missionari presenti nelle
colonie – collaborarono attivamente nel dissuadere i cattolici dal
contrarre matrimoni “misti” – definiti “ibridi unioni” –
contaminando la pretesa “purezza della razza” che si iniziava a
propagandare con l’apporto di nozioni eugenetiche di ben dubbia
scientificità.
Fu
così che il 15 luglio 1938 il Giornale
d’Italia
pubblicò con l’eloquente titolo “Il fascismo e i problemi della
razza” un Manifesto
frutto del lavoro di un gruppo anonimo di studiosi e docenti
fascisti. L’obiettivo apparente era quello di fornire una
giustificazione culturale alle disposizioni previste per affrontare
la cosiddetta “questione coloniale”. Rileggere oggi anche solo
gli incipit dei dieci punti del Manifesto
suscita brividi ed evidenzia come non avrebbero potuto tardare le
successive leggi razziali contro gli ebrei: “1. Le razze umane
esistono; 2. Esistono grandi razze e piccole razze; 3. Il concetto di
razza è concetto puramente biologico; 4. La popolazione dell’Italia
attuale è nella maggioranza di origine ariana
e la sua civiltà è ariana; 5. È leggenda l’apporto di masse
ingenti di uomini in tempi storici; 6. Esiste ormai una ‘pura razza
italiana’; 7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente
razzisti; 8. È necessario fare una netta distinzione fra i
Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte, gli Orientali e
gli Africani dall’altra; 9. Gli ebrei non appartengono alla razza
italiana; 10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei
degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo”.
Si
può forse discutere sul fatto che simili affermazioni avessero o
meno a che fare con le conoscenze scientifiche dell’epoca, quello
che invece è certo è che non avessero – né allora né mai –
alcun fondamento nel dettato evangelico. Per quanto concerne
l’aspetto principale di questa nostra riflessione – il rapporto
tra razzismo e cattolicesimo italiano – è allora amaro il dover
constatare come le scarse preoccupazioni della gerarchia cattolica si
limitassero da un lato a minimizzare le ricadute di simili
affermazioni sull’esigua minoranza ebraica in Italia e, d’altro
lato, a sottolineare le differenze tra “razzismo vero e proprio”
(quello del nazismo tedesco, pagano e idolatrico) e la “politica
razziale” italiana, tesa al miglioramento della razza umana. In
questo quadro generale che accomuna diplomazia vaticana ed episcopato
italiano, va tuttavia sottolineato l’atteggiamento molto più
preoccupato di papa Pio XI che “assunse una posizione di critica
aperta nei confronti della nuova politica razziale inaugurata dal
regime”,
al punto da provocare malumori e imbarazzo in alcuni prelati
maggiormente in sintonia con gli ambienti governativi.
Considerato
l’atteggiamento dialogante o quanto meno interlocutorio della
gerarchia cattolica, non sorprende allora il silenzio e
l’acquiescenza della stessa al momento dell’emanazione delle
tristemente famose “Leggi razziali”,
di cui è sufficiente leggere il paragrafo iniziale dell’art. 1 e
gli artt. 2 e 3 per cogliere l’insanabile frattura tra ideologia
fascista e dettato evangelico o, più semplicemente, morale
cattolica.
Da quella tragica data il rifiuto esplicito del razzismo da parte
della Chiesa cattolica in Italia sarà patrimonio di una minoranza di
ecclesiastici e di laici cattolici, pronti – a volte anche a prezzo
della vita – a testimoniare il rifiuto di disposizioni così
palesemente antievangeliche e disumane e a prodigarsi nell’aiutare
i propri concittadini di fede ebraica.
La
notte dell’umanità che l’Italia, l’Europa e il mondo intero
conosceranno negli anni del secondo conflitto mondiale avrà avuto
come prodromi proprio la mancata risoluta opposizione e condanna di
quelle parole avvelenate da razzismo e antisemitismo.
Le
migrazioni interne e il razzismo di casa nostra
Il
regime fascista aveva cercato di mettere un freno all’emigrazione
oltreoceano, cercando al contrario di richiamare in patria o nelle
colonie gli italiani emigrati nelle Americhe. In quest’ottica venne
avviata una politica agraria volta a ridurre la dipendenza
dall’estero per i prodotti agricoli recuperando terre agricole
incolte e riducendo i grandi latifondi. Un ruolo particolare lo
assunse la bonifica dell’Agro Pontino in Lazio, avviata nel 1928 e
potenziata nel 1931, reclutando manodopera tra le popolazioni più
povere del Nord Italia – segnatamente dal Veneto – che si trovava
a lavorare in condizioni di estrema insalubrità: così la
possibilità di poter vivere della coltivazione di appezzamento di
terra si accompagnò a un radicale spaesamento e a un tasso di
mortalità assai elevato. Fu la prima grande migrazione interna al
paese e riguardò essenzialmente il mondo rurale.
Un
simile accostamento tra disponibilità di terra coltivabile e
allontanamento dal paese di origine avverrà per tutt’altri motivi
nel 1953: l’alluvione del Polesine obbligherà masse di contadini
di quella zona a spostarsi in altre regioni del Nord a spiccata
vocazione agricola.
Ma
nel frattempo la tragedia della II guerra mondiale, la caduta del
regime fascista, il referendum popolare che portò alla fine della
monarchia e alla nascita della Repubblica italiana segnarono anche
una svolta decisiva nell’atteggiamento verso il razzismo esplicito.
La Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1°
gennaio 1948, così afferma nei suoi “principi fondamentali” non
emendabili: “Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3),
anticipando quanto verrà sancito anche dalla Dichiarazione
universale dei diritti umani
del dicembre dello stesso anno.
La
rinascita post-bellica e la ricostruzione di un paese stremato vedrà
anche il progressivo e rapido passaggio da un’economia
prevalentemente agricola a una sempre più industrializzata. Questo
comporterà una nuova massiccia ondata migratoria sia all’estero
sia interna, dal sud al nord del paese. Così i lavoratori italiani
emigrati oltre confine – principalmente in Europa: Belgio,
Germania, Francia, Svizzera… – e impiegati soprattutto nei
settori minerari, delle costruzioni, della ristorazione, ma anche
nell’agricoltura stagionale, conosceranno pregiudizi xenofobi e
razziali da parte delle popolazioni locali e anche discriminazioni di
tipo legale e amministrativo. Pregiudizi e ostilità che
affliggeranno anche gli emigrati interni, specie quelli provenienti
da sud, chiamati a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord Italia:
difficoltà a trovare alloggi in affitto, stereotipi e
generalizzazioni circa abitudini malavitose, intolleranza verso usi e
costumi tradizionali…
Xenofobia
e razzismo
Ci
vorranno decenni di difficile integrazione, ma – grazie sopratutto
alla solidarietà operaia nelle fabbriche, alla liberalizzazione
dell’accesso a tutte le facoltà universitarie anche per gli
studenti provenienti dalle scuole tecniche, il progressivo
intrecciarsi delle “seconde generazioni” di immigrati dal Sud
Italia anche attraverso matrimoni e nuove famiglie “miste” –
gli aspetti più macroscopici della “xenofobia”, cioè la paura
del diverso, si attenueranno sempre più.
In
questo percorso virtuoso anche il già ricordato affermarsi
dell’italiano come lingua conosciuta e usata da tutti contribuirà
a una maggiore coesione sociale. Né va dimenticato il ruolo della
chiesa cattolica in pieno fervore di aggiornamento post-conciliare e
il suo prodigarsi a livello parrocchiale locale per realizzare nella
quotidianità una piena fraternità tra tutti i suoi membri.
Da
almeno due decenni, tuttavia, questo arretramento dei pregiudizi e
delle ostilità xenofobe e razziste si è arenato e la società
italiana ha conosciuto e conosce ogni giorno di più una
recrudescenza dei peggiori sentimenti di paura e di odio verso chi
può essere considerato “altro”. La scomparsa della “cortina di
ferro”, simboleggiata dal crollo del muro di Berlino e il
conseguente affluire anche in Italia di un considerevole numero di
nuovi immigrati dai paesi dell’est – in particolare dall’Albania
e dalla Romania – hanno ben presto riprodotto i peggiori stereotipi
cripto-razzisti: i media e l’opinione pubblica si influenzano a
vicenda nell’additare (a torto o a ragione) gli stranieri come
protagonisti sia della micro-criminalità che dei più efferati
delitti. Le accuse, sovente infondate e comunque esagerate, che negli
anni cinquanta e sessanta venivano attribuite ai “meridionali”,
ora vengono imputate genericamente agli stranieri provenienti
dall’est Europa.
Eppure,
ci ricorda l’ex-senatore Luigi Manconi, “I dati che ci consegnano
le scienze sociali ed economiche sono inequivocabili: le fasi
iniziali dei flussi migratori, in assenza di adeguate politiche di
regolarizzazione e inclusione, producono ovunque un incremento dei
crimini: ed è altrettanto vero che l'immigrazione albanese e quella
romena in Italia, dopo i primi anni di assestamento, ha visto ridursi
i relativi tassi di criminalità”.
Ma
prima ancora che questa xenofobia diffusa potesse essere ricondotta a
dati più oggettivi di malessere sociale, l’arrivo di profughi,
richiedenti asilo e migranti economici partiti dalle sponde
meridionali del Mediterraneo – ma provenienti in realtà dal Medio
Oriente devastato dalle guerre o dall’Africa sub-sahariana vittima
di carestie o di spogliazione delle sue risorse naturali ad opera
delle multinazionali occidentali – provoca uno spostamento
massiccio dei sentimenti xenofobi e razzisti verso i nord-africani e
i ‘neri’. A nulla valgono i richiami ai numeri oggettivi e alla
possibilità e necessità di regolare i flussi migratori: la crisi
finanziaria mondiale offre il pretesto ideale per dirottare la paura
e l’ansia della popolazione autoctona in maggiore difficoltà
economica contro i più poveri, come se l’aver identificato degli
“ultimi” cui addossare ogni colpa rendesse meno precaria e più
sopportabile la condizione dei “penultimi”.
Con
ragione Luigi Manconi nell’articolo già citato osservava che “la
xenofobia – che è cosa assai diversa dal razzismo e che significa
ciò che dice alla lettera, ovvero paura del diverso e dello
sconosciuto – si diffonde e riguarda tutti noi. Anche coloro che si
dichiarano fieramente anti-razzisti. Ed è proprio la xenofobia, che
non è destinata necessariamente a tradursi in aggressività
razzista, a dettare o comunque condizionare i nostri comportamenti e,
ancor prima, i nostri pensieri in presenza di un evento traumatico”.
Ma senza una vigilanza sull’insorgere della xenofobia, senza una
gestione del fenomeno migratorio, la strada verso il razzismo è
spianata.
Terra,
spaesamento e migrazioni: lo “ius soli”
Caso
emblematico del rapporto tra legame con la terra, spaesamento dovuto
all’emigrazione e razzismo è l’acceso dibattito sullo ius
soli
che ha attraversato l’opinione pubblica e le forze politiche
italiana nella passata legislatura.
Come
in altri paesi storicamente segnati dall’emigrazione, ancora oggi
si diventa cittadini italiani in virtù dello ius
sanguinis:
un bambino è italiano fin dalla nascita se uno dei due genitori è
italiano, in qualunque paese venga al mondo. Strumento un tempo
necessario per garantire cittadinanza certa ai nostri emigrati
indipendentemente dal paese di approdo e per mantenerli legati alla
patria nell’eventualità di un ritorno in Italia. Così ancora oggi
ci sono nel mondo milioni di italiani (molti dei quali con doppia
cittadinanza) che non hanno mai vissuto in Italia, che non ne
conoscono né la lingua, né la storia, né le leggi.
Ben
diversa normalmente la legislazione di stati nati e cresciuti grazie
all’immigrazione – come gli U.S.A. - che, per motivi speculari a
quelli ricordati prima, accordano la cittadinanza in base allo ius
soli:
chiunque nasca in quella nazione ne è automaticamente cittadino.
Ora,
come già accaduto in altri paesi che hanno conosciuto importanti
flussi di immigrazione nella seconda metà del XX secolo, anche in
Italia si è prospettata la possibilità di concedere la cittadinanza
in base a uno ius
soli
temperato: i figli di immigrati stabilmente in Italia da almeno
cinque anni – nati in Italia o arrivati in tenera età –
avrebbero acquisito la cittadinanza italiana al termine del ciclo
scolastico elementare (verso gli 11 anni), anziché attendere la
maggiore età (18 anni) per avviare un lungo e complicato iter
burocratico. Lo ius
soli
avrebbe consentito non solo simbolicamente all’immigrato di avere
una nuova “terra” dopo lo spaesamento dalla propria.
Il
progetto di legge fu approvato dalla Camera dei Deputati, ma in
occasione della votazione finale in Senato (2017) il dibattito si
infiammò a tal punto – dentro e soprattutto fuori dal Parlamento –
che la legge non venne più messa ai voti e quindi non fu approvata
prima della fine della legislatura. Così circa 800.000 bambini,
ragazzi e adolescenti perfettamente integrati, che parlano solo
italiano, che vivono, giocano, studiano con i loro coetanei italiani
continuano a non essere cittadini del loro paese e a non godere degli
stessi diritti dei loro compagni di tutti i giorni.
I
toni della discussione si rivelarono ben presto accesissimi e sovente
marcatamente razzisti, così che lo strumento giuridico dello ius
sanguinis
si è rapidamente trasformato da salvaguardia per un popolo di
migranti a incentivo per un imbarbarimento razziale se non
addirittura tribale.
Un
paese ancora cattolico?
In
questa occasione è emerso in modo evidente un fenomeno avviatosi da
alcuni decenni: il venir meno del connotato marcatamente cattolico
della popolazione italiana. Alcuni dati statistici sembrerebbero
indicare la tenuta di questo tessuto connettivo tradizionale: la
scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica
nelle scuole pubbliche, così come le indicazioni per devolvere a
favore della Chiesa cattolica una percentuale dell’imposta sui
redditi restano ancora largamente maggioritarie, forse anche a motivo
di mancanza di alternative convincenti. D’altro canto però il
numero dei praticanti regolari, dei matrimoni religiosi, dei
battesimi, delle vocazioni al presbiterato e alla vita religiosa ha
conosciuto un crollo assai vistoso.
Ma
ancor più preoccupante è il progressivo abbandono del riferimento
alla Chiesa e alla dottrina sociale cattolica nella vita e nelle
scelte quotidiane. I laici cattolici presenti in politica,
principalmente attraverso il partito della
Democrazia cristiana –
determinanti non solo nella rinascita post-bellica e nella stesura
della Costituzione della Repubblica italiana, ma anche nel governo
del paese e nel riflessione culturale per oltre cinquant’anni –
sono stati afflitti da una progressiva afonia, favorita anche da due
decenni in cui i vertici della gerarchia cattolica italiana hanno
privilegiato interventi diretti e costanti nel dibattito politico.
Analogamente il focalizzarsi in battaglie pubbliche su alcuni “valori
non negoziabili”, importanti ma non esaustivi in quanto limitati a
questioni relative alla nascita, alla morte e alla sessualità, è
andato a detrimento di una sollecitudine per l’insieme dei bisogni
degli abitanti del paese – italiani e stranieri – e di un
approccio non individualista ma solidale alle problematiche sociali.
Così la carità operosa e intelligente, il fattivo prodigarsi per i
poveri e gli ultimi è stato delegato alla Caritas,
all’associazionismo
del volontariato, a gruppi marginali all’interno delle parrocchie e
a comunità religiose profetiche: la generosità quotidiana di tanti
cattolici pronti a collaborare con uomini e donne “di buona
volontà” di diversa o nessuna appartenenza religiosa è diventata
agli occhi della maggioranza della popolazione, anche di matrice
cattolica, una manifestazione di fissazione o sensibilità
personale. Si è addirittura coniato il termine spregiativo di
“buonismo”, una sorta di bontà smodata e fuori luogo, quasi che
l’amore del prossimo fosse una degenerazione di cui diffidare.
E
tutto questo a partire proprio dalle aree del paese storicamente
segnate da un più diffuso cattolicesimo popolare, quelle che
probabilmente hanno indotto molti degli stessi pastori a mancare di
lungimiranza, ritenendo erroneamente che lo “zoccolo duro” della
cultura cattolica avrebbe comunque resistito alle tentazioni della
mondanità sempre più diffusa e alla rarefazione dell’annuncio
radicale delle esigenze evangeliche.
I
cattolici identitari e le esigenze del Vangelo
Così
oggi il fenomeno dell’immigrazione ha messo in evidenza una
dicotomia sempre più marcata nel mondo cattolico e nella società
italiana, una contrapposizione quotidiana tra quelli che Enzo Bianchi
definisce “i cristiani del campanile” e “i cristiani del
Vangelo”.
Potremmo chiamarli anche “cattolici della facciata” identitaria e
“cristiani della sequela”.
I
primi paiono tesi a ostentare un attaccamento alle apparenze di una
cultura identitaria cattolica e incuranti della totale incoerenza dei
loro comportamenti rispetto al dettato evangelico: si conformano alla
mentalità mondana strumentalizzando simboli religiosi ridotti a
feticci. Emblematico in questo senso il segretario di un partito
politico che fino a pochi anni fa inneggiava a mitologiche divinità
fluviali, mostrava disprezzo per le popolazioni del meridione e
propugnava la secessione del Nord Italia. Nei recenti comizi
elettorali per il Parlamento italiano prima e quello europeo poi,
quest’uomo politico ha usato sistematicamente una copia del Vangelo
e una corona del rosario per rivendicare un’identità cattolica,
incurante del fatto che al contempo i suoi sostenitori dileggiassero
apertamente papa Francesco e i vescovi della Chiesa italiana,
disattendendone i richiami evangelici e gli orientamenti pastorali.
Divenuto poi ministro nel governo nazionale ha sistematicamente
contrastato ogni pratica di accoglienza dei profughi e dei
richiedenti asilo e ha orchestrato attraverso i social media vere e
proprie campagne di odio contro gli stranieri e chi si prende cura di
loro, fino a far approvare una legge – per la cui votazione
favorevole ha persino ringraziato l’intercessione della Vergine
Maria – che criminalizza chi presta soccorso ai naufraghi e limita
pesantemente la libertà di manifestazione del dissenso.
Sono
così aumentati esponenzialmente gli episodi di intolleranza xenofoba
e le violenze di chiara impronta fascista e razzista ad opera sì di
frange minoritarie e di “cani sciolti”, che tuttavia sentono di
poter godere della comprensione e del supporto di una fetta
consistente della popolazione italiana. Perfino alcuni amministratori
pubblici locali hanno attuato disposizioni discriminatorie nei
confronti dei non italiani, palesemente in contrasto non solo con
l’etica cristiana ma anche con il dettato costituzionale. Molti
‘cattolici della facciata’ condividono queste scelte ed esternano
la loro intolleranza apertamente o sui social nei confronti dei
profughi e dei migranti.
I
“cristiani della sequela”, invece, come molti discepoli di Cristo
di ogni tempo e di ogni luogo, sono consapevoli dei propri limiti,
cadono costantemente nel cammino dietro al loro Signore, ma si
rialzano e riprendono la strada della conversione, cercando di
conformare ogni giorno le loro povere vite a quella di Gesù Cristo e
alle esigenze poste dal Vangelo. La pacifica, ostinata resistenza di
questi uomini e queste donne – semplici battezzati di ogni età e
classe sociale, presbiteri, religiose, vescovi – tiene accesa,
nonostante tutte le loro contraddizioni, la fiaccola del Vangelo in
un paese che, come tale, ormai può essere definito “post
cattolico”.
In
questa faticosa ricerca di fedeltà quotidiana al Vangelo, molti
cristiani sono ricondotti costantemente dal magistero in parole e
azioni di papa Francesco all’essenziale del vissuto della loro
fede: restare saldamente attaccati alle parole di Gesù, al suo
operare e al suo narrare il volto misericordioso del Padre. In questo
senso, di fronte alla degenerazione civile dell’Italia, il Vescovo
di Roma – che pur incontra diffidenza se non ostilità da una parte
degli stessi fedeli cattolici – è divenuto punto di riferimento e
fonte di speranza
anche per molti non credenti, uomini e donne “di buona volontà”
che ostinatamente difendono la dignità di ogni essere umano.