Quando
un cattolico della mia età – che ha ricevuto i sacramenti
dell’iniziazione cristiana a concilio Vaticano II annunciato ma non
ancora aperto – sente la parola confessione,
pensa immediatamente al sacramento della penitenza o riconciliazione
e si ricorda dello stupore con il quale apprese che un santo come
“Edoardo III il confessore” non aveva trascorso nemmeno un’ora
della sua vita in confessionale ad ascoltare i penitenti, ma aveva
piamente regnato nell’Inghilterra del turbolento XI secolo.
Sì,
perché il significato primario di “confessione” è la
proclamazione della fede, non l’enunciazione dei propri peccati.
Così, ai partire dai Credo
– i
simboli
di fede dei primi secoli ancor oggi in uso nelle liturgie cristiane –
“confessio” diviene il coagularsi nel corso della storia
dell’insieme di affermazioni e modalità che ogni Chiesa utilizza
per manifestare la propria fede in Gesù Cristo attraverso una
specifica identità ecclesiale. Una famosa caratterizzazione di
questo significato lo troviamo nella “Confessione augustana” del
1530, quando Melantone redasse una serie di principi del nascente
protestantesimo perché fosse discussa nella dieta imperiale di
Augusta (Augsburg) e si verificasse la possibilità della
ricomposizione del conflitto con Roma. Da quella mancata
riconciliazione si sono via via moltiplicate le diverse “confessioni”
di fede, tese più a caratterizzare elementi specifici e sovente
contrapposti che non a sottolineare la comune ricerca di seguire il
Signore sotto la guida del Vangelo.
Il
cammino ecumenico da oltre un secolo cerca di ritrovare l’unità
dei cristiani di varie “confessioni” proprio attraverso la
riscoperta e la riaffermazione che l’identità cristiana
basilare (essere cioè discepoli di Gesù Cristo, morto e risorto per
la salvezza dell’umanità intera) fonda l’identità ecclesiale
(l’essere
membra del corpo di Cristo grazie al battesimo ricevuto nel nome
della santa Trinità in una specifica Chiesa) e motiva ogni
particolare identità confessionale
(il riconoscersi qui e ora in una particolare confessione cristiana
inserita nell’oggi della storia).
Più
i cristiani saranno disposti a rinunciare agli aspetti non essenziali
della confessione cristiana attraverso la quale sono stati generati a
Cristo, più risplenderà davanti agli uomini l’unità voluta da
Cristo. Non si tratta certo di “sconfessare” la propria Chiesa,
bensì di assumere verso i cristiani di altre confessioni lo sguardo
evangelico richiamato dal concilio Vaticano II: “Quelli
che
ora
nascono
e
sono
istruiti
nella
fede
di
Cristo
in
tali
Comunità
[che si staccarono dalla piena comunione della Chiesa cattolica],
non
possono
essere
accusati
di
peccato
di
separazione,
e
la
Chiesa
cattolica
li
abbraccia
con
fraterno
rispetto
e
amore.
Quelli
infatti
che
credono
in
Cristo
ed
hanno
ricevuto
debitamente
il
Battesimo,
sono
costituiti
in
una
certa
comunione,
sebbene
imperfetta,
con
la
Chiesa
cattolica.
[…] Nondimeno,
giustificati
nel
Battesimo
dalla
fede,
sono
incorporati
a
Cristo,
e
perciò
sono
a
ragione
insigniti
del
nome
di
cristiani,
e
dai
figli
della
Chiesa
cattolica
sono
giustamente
riconosciuti
quali
fratelli
nel
Signore”
(Unitatis
redintegratio
3).
Questo
sguardo che va oltre le divisioni confessionali e si fissa sull’unico
Signore della Chiesa è la vocazione e la responsabilità del
movimento ecumenico.