giovedì 21 marzo 2019

Ecumene 3 - Confessione / Augsburg

Terza puntata della rubrica Ecumene, dove parlo di Confessione (di fede) e della dieta imperiale di Augusta (Augsburg, 1530), quando fallì il tentativo di comprensione reciproca e di riconciliazione tra i rappresentanti del Papa e i Riformatori.





Quando un cattolico della mia età – che ha ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana a concilio Vaticano II annunciato ma non ancora aperto – sente la parola confessione, pensa immediatamente al sacramento della penitenza o riconciliazione e si ricorda dello stupore con il quale apprese che un santo come “Edoardo III il confessore” non aveva trascorso nemmeno un’ora della sua vita in confessionale ad ascoltare i penitenti, ma aveva piamente regnato nell’Inghilterra del turbolento XI secolo.
Sì, perché il significato primario di “confessione” è la proclamazione della fede, non l’enunciazione dei propri peccati. Così, ai partire dai Credo – i simboli di fede dei primi secoli ancor oggi in uso nelle liturgie cristiane – “confessio” diviene il coagularsi nel corso della storia dell’insieme di affermazioni e modalità che ogni Chiesa utilizza per manifestare la propria fede in Gesù Cristo attraverso una specifica identità ecclesiale. Una famosa caratterizzazione di questo significato lo troviamo nella “Confessione augustana” del 1530, quando Melantone redasse una serie di principi del nascente protestantesimo perché fosse discussa nella dieta imperiale di Augusta (Augsburg) e si verificasse la possibilità della ricomposizione del conflitto con Roma. Da quella mancata riconciliazione si sono via via moltiplicate le diverse “confessioni” di fede, tese più a caratterizzare elementi specifici e sovente contrapposti che non a sottolineare la comune ricerca di seguire il Signore sotto la guida del Vangelo.
Il cammino ecumenico da oltre un secolo cerca di ritrovare l’unità dei cristiani di varie “confessioni” proprio attraverso la riscoperta e la riaffermazione che l’identità cristiana basilare (essere cioè discepoli di Gesù Cristo, morto e risorto per la salvezza dell’umanità intera) fonda l’identità ecclesiale (l’essere membra del corpo di Cristo grazie al battesimo ricevuto nel nome della santa Trinità in una specifica Chiesa) e motiva ogni particolare identità confessionale (il riconoscersi qui e ora in una particolare confessione cristiana inserita nell’oggi della storia).
Più i cristiani saranno disposti a rinunciare agli aspetti non essenziali della confessione cristiana attraverso la quale sono stati generati a Cristo, più risplenderà davanti agli uomini l’unità voluta da Cristo. Non si tratta certo di “sconfessare” la propria Chiesa, bensì di assumere verso i cristiani di altre confessioni lo sguardo evangelico richiamato dal concilio Vaticano II: “Quelli che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali Comunità [che si staccarono dalla piena comunione della Chiesa cattolica], non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Quelli infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto debitamente il Battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. […] Nondimeno, giustificati nel Battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti quali fratelli nel Signore” (Unitatis redintegratio 3).

Questo sguardo che va oltre le divisioni confessionali e si fissa sull’unico Signore della Chiesa è la vocazione e la responsabilità del movimento ecumenico.



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