mercoledì 27 settembre 2017

Dag Hammarskjöld

Il meglio e l’ottimo a cui si possa giungere in questa vita
è che tu taccia e lasci agire e parlare Dio.
Una volta mi afferrasti, o Lanciatore.
Ora nella tua tempesta.
Ora verso la tua meta”.

Così, citando Meister Eckhart, annotava nelle sue Tracce di cammino Dag Hammarskjöld sessant’anni fa, il 26 settembre 1957, giorno della sua rielezione per un secondo mandato come Segretario generale dell’ONU.
Quattro anni dopo, sempre in settembre, nella notte tra il 17 e il 18 l’aereo sul quale viaggiava si schiantava al suolo nei pressi dell’aeroporto di Ndola, al confine tra il Katanga e la Rhodesia del Nord, dove Hammarskjöld avrebbe incontrato i secessionisti per tentare un’estrema mediazione nella crisi congolese.

Il 10 agosto scorso il giudice tanzaniano Mohamed Chande Othman – incaricato dall’ONU di verificare se nuove fonti o documenti avrebbero potuto consentire un riesame delle indagini volte a stabilire le cause del disastro – ha consegnato la sua relazione all’attuale Segretario generale António Guterres.
Il supplemento di indagine preliminare era stato deciso nel 2015, quando un’apposita commissione aveva valutato opportuno– anche sulla base dell’accurato lavoro di ricerca compiuto da Susan Williams, pubblicato in un libro dal significativo titolo Who killed Hammarskjöld? – affidare questo compito a una “eminente personalità”.
Le conclusioni sono quelle che tutti coloro che hanno seguito in questi decenni la vicenda dell’opera e della morte di Dag Hammarskjöld si attendevano: nei dossier dei paesi allora coinvolti nella turbolenta questione congolese – in particolare Gran Bretagna, Belgio e U.S.A. – si possono celare elementi tali da supportare l’ipotesi che l’aereo di Hammarskjöld sia precipitato in seguito all’intervento ostile di un altro aereo.
A me preme ancora una volta sottolineare la dimensione umana e cristiana di questo cittadino del mondo a servizio della polis*: consapevole che il trovarsi nella tempesta non era estraneo al suo rapporto con Dio, ma anzi che fosse il modo per incamminarsi risolutamente verso la meta di Dio.
The best way out is always through” – aveva scritto il poeta Robert Frost nel 1916 – e questo cercare la migliore via d’uscita non nell’evasione ma nell’immersione nelle difficoltà, nel loro attraversamento è stata una caratteristica dell’operare di Hammarskjöld durante tutta la sua vita.

Nell’ultima annotazione del Diario, il 24 agosto 1961, venti giorni prima di morire, il Segretario generale dell’ONU sembra intravvedere la sua “via d’uscita”: “Comincio a riconoscere la mappa e i punti cardinali”.

* E' quanto ho già cercato di fare nella Prefazione all'ultima edizione di Tracce di cammino e in occasione del Seminario dell'Associazione Dag Hammarskjöld Today, tenutosi a Roma il 16 Novembre 2015:


sabato 23 settembre 2017

LO IUS DELLA PAIDEIA


È basco chi parla basco!”. Così anni fa il basco (di nazionalità francese) Gabriel Mouesca rispose alla mia domanda su chi è basco. Una risposta di semplicità e radicalità disarmanti, che mi è tornata alla mente leggendo oggi due articoli sullo ius soli temperato, o ius culturae che approvar si voglia.
Nel primo, intitolato “L’Italia salvi il proprio onore”, dopo aver evocato “l’antica tradizione romana”, Ginevra Bompiani scrive su il manifesto: “Appartiene alla nostra cultura riconoscersi nel diverso. Non farlo, sarebbe come per un editore rifiutare di tradurre testi stranieri”.
Nella rubrica che Umberto Galimberti tiene settimanalmente su D de la Repubblica, risponde a un lettore citando Isocrate (IV sec. a.C.): “Atene ha fatto sì che il nome di elleni designi non più una stirpe (ghénos), ma un modo di pensare (diánoia). Per cui siano chiamati elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia”.
Tre approcci convergenti nel definire l’identità di un popolo al di là di confini orografici e statali. Una lingua, infatti – e in particolar modo quella basca, estranea al ceppo indo-europeo e quindi assai difficile da apprendere da parte di chi non la sente parlare e la frequenta quotidianamente – è uno degli elementi culturali di base, che ciascuno di noi assimila da subito e indipendentemente dallo status giuridico della sua presenza in un determinato territorio. Come un basco è basco indipendentemente dal suo essere cittadino francese o spagnolo, nativo o immigrato, così le popolazioni delle varie regioni e stati che hanno formato l’Italia erano percepite e si percepivano “italiane” ben prima dell’unità d’Italia – perseguita anche per questo motivo – e prima di essere capaci di esprimersi correntemente in italiano e non in dialetto. È quindi l’educazione, la paideia, la cultura che, formandosi e arricchendosi in un determinato territorio, definisce progressivamente un’identità, in costante divenire.
E all’identità culturale italiana – anche nella sua estensione etica e di costumi – hanno da sempre contribuito e continuano a contribuire scrittori, filosofi e pensatori di ogni lingua, stirpe, etnia. Grazie all’antica e meravigliosa arte della traduzione – quella che rende alcune persone capaci di “dire quasi la stessa cosa” in un’altra lingua, secondo la felice espressione di Umberto Eco – sono oggi patrimonio degli italiani anche autori che “italiani” non sono mai stati: così, allo stesso titolo ritroviamo oggi nel nostro dna culturale Omero e Virgilio, Agostino e Gregorio Magno, Dante e Shakespeare, Erasmo e Machiavelli, Copernico e Galileo, Manzoni e Proust, Kant e Croce, Calvino ed Hemingway…
Possiamo allora dire, quasi venticinque secoli dopo Isocrate, che “il nome di italiano” designi una paideia comune, un modo di articolare e di comunicare il pensiero e le emozioni che condividiamo, al di là delle opinioni personali, con quanti intrecciano la loro esistenza quotidiana con la nostra e quella dei nostri figli? E possiamo fare in modo che questa “educazione” comune, questa cultura condivisa sia riconosciuta come fondante uno ius, un diritto che spetta a chiunque abbia avuto dalle vicende della vita il dono di poterla condividere?

lunedì 11 settembre 2017

GUERRA GIUSTA, PACEM IN TERRIS E SANTI PATRONI

             Sto ancora cercando di capacitarmi di come sia stato possibile che “Con decreto del 17 giugno 2017, la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, in virtù delle facoltà concesse da papa Francesco, ha dichiarato san Giovanni XXIII ‘Patrono presso Dio dell’Esercito italiano’”.
       Avete letto bene, l’autore della Pacem in terris che dichiara “alienum a ratione, [estraneo alla ragione, folle] che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”, il papa della Chiesa universale viene proclamato “patrono” di un esercito nazionale!
       E questa decisione sconvolgente è presa da un organismo della Chiesa cattolica, apostolica romana “in virtù delle facoltà concesse da papa Francesco”, il medesimo pontefice di cui leggiamo queste parole in un volume-intervista appena uscito in Francia: “Ancora oggi dobbiamo pensare con attenzione al concetto di ‘guerra giusta’. Abbiamo imparato in filosofia politica che per difendersi si può fare la guerra e considerarla giusta. Ma si può parlare di ‘guerra giusta’? O di ‘guerra di difesa’? In realtà la sola cosa giusta è la pace”. [L’intervistatore gli chiede:] “Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?”. [E il papa risponde:] “Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace”.
            Ho cercato di capire le motivazioni evangeliche di una Bolla vaticana che “l’Ordinario militare per l’Italia, arcivescovo Santo Marcianò, consegnerà al Capo di Stato maggiore, generale Danilo Errico” e sono perciò andato a leggermi su L’Osservatore romano l’articolo che Ezio Bolis dedica alla notizia. Sono uscito frastornato dalla lettura: a parte la breve frase che annovera “il costante impegno [di papa Giovanni] in favore della pace” tra le motivazioni del decreto, tutto il resto dell’articolo fa riferimento a pensieri, parole e azioni non del “Vescovo di Roma che presiede nella carità”, bensì di don Angelo Roncalli durante gli anni della I guerra mondiale. Da essi emergono l’umanità del giovane prete bergamasco, la sua vicinanza alle immani sofferenze di tanti giovani, il suo ministero di compassione e di consolazione verso quei “cario giovani soldati”. Naturalmente negli scritti di quegli anni non si potrebbe pretendere di trovare frasi di condanna di una “inutile strage” da parte di un presbitero che ha come ministero l’assistenza spirituale e umana e persone che egli giustamente – e a differenza di molti suoi superiori – si rifiuta di considerare come “carne da macello”.
            Ma questo come può giustificare il “patronato” di un Pontefice proclamato santo su un esercito particolare, destinato per sua funzione intrinseca a combattere contro altri eserciti? È vero che da alcuni decenni si cerca di far passare l’idea che “il compito precipuo dell’esercito in uno stato democratico è difendere il bene prezioso della pace imponendo la forza della legge”, ma questa missione idilliaca mostra almeno due contraddizioni: da un lato “imporre la forza della legge” spetta alla polizia, non all’esercito, così come alla magistratura spetta inculcarne il rispetto; d’altro lato si tace sui mezzi con cui si pretende di “difendere il bene prezioso della pace”: armi da guerra sempre più sofisticate e distruttive, sempre più destinate a colpire civili e non militari, sempre più generatrici di “effetti collaterali” devastanti.
      Certo, molte popolazioni in Italia e all’estero provate da disastri naturali hanno conosciuto e conoscono il preziosissimo contributo dell’esercito nell’alleviare le loro sofferenze, ma questo è offerto da uomini disarmati, operanti sovente a mani nude e mai grazie a portaerei, caccia bombardieri, missili e cannoni... Un’occhiata al bilancio delle nostre Forze armate e ai suoi capitoli di spesa sarebbe molto indicativo per comprendere le priorità del nostro esercito, come del resto di tutti gli eserciti, anche di quelli che non hanno come patrono san Giovanni XXIII.
          Credo che san Giovanni XXIII – papa Giovanni, come ama ancora chiamarlo la mia generazione – sarebbe stato molto più adatto a essere proclamato patrono degli operatori di pace di tutte le nazioni. Comunque, per volontà di Dio, questi ultimi, uomini e donne oscuri testimoni della speranza hanno non tanto per “patrono”, ma per Signore e Maestro Gesù stesso che ha proclamato: “Beati gli operatori di pace!”. Con buona “pace” dell’esercito italiano.




domenica 3 settembre 2017

MONACI E CINEMA

             Nel post precedente ho citato la pellicola Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois – Grand Prix du Jury al Festival di Cannes del 2010 – che narra la vicenda dei monaci di Tibhirine. La sua uscita nelle sale francesi e poi di tutta Europa incontrò un successo di pubblico che molti accostarono a quello conosciuto cinque anni prima dal documentario Die grosse Stille (Il grande silenzio) del regista tedesco Philip Gröning. Successo che, in entrambi i casi, fu particolarmente significativo se calcolato non sul numero totale degli spettatori, ma sul rapporto tra numero di pellicole distribuite (e quindi di sale dove vennero proiettati) e spettatori paganti.
         Entrambi presentano uno squarcio di vita monastica, l’esistenza quotidiana di un esiguo gruppo di monaci che vivono in una più o meno radicale clausura rispetto al mondo circostante. Gröning lo fa con un accuratissimo lavoro documentario: ottenuto il permesso – diversi anni dopo averlo richiesto – di filmare la vita all’interno della Grande Chartreuse sopra Grenoble, ci presenta soprattutto un aspetto della vita dei certosini: il silenzio che, nel documentario, come del resto nell’esistenza quotidiana…, non è colmato nemmeno da una colonna sonora. Il regista ha documentato il silenzio cghe ha saputo e potuto “ascoltare”, cogliere, penetrare.



      Beauvois, invece, ha ricostruito un evento storico con estrema accuratezza e immedesimazione. Come ambientazione ha scelto un monastero in Marocco, abbandonato da anni; ha preteso che ogni attore trascorresse un tempo in un monastero trappista e incontrasse i parenti del monaco che avrebbe interpretato sullo schermo; ha voluto che nelle scene delle liturgie in cappella fossero gli stessi attori a cantare salmi e inni… Ma il film resta una fiction: nessun accenno esplicito è fatto all’Algeria (e i militari indossano le uniformi dell’esercito marocchino), alcuni episodi vengono rielaborati, rinunciando perfino a particolari storici di sicuro effetto, i dialoghi sono sovente lasciati all’improvvisazione degli attori, le condizioni atmosferiche del set offrono soluzioni non programmate (come l’improvvisa nevicata che fa riscrivere le scene del rapimento e della marcia forzata finale.





              Eppure, da monaco, devo confessare che ho trovato il film su Tibhirine più “reale” del documentario della Certosa. L’ottimo lavoro di Gröning, infatti, mi è parso più una parabola sul silenzio e le sue valenze che non uno spaccato di vita monastica. In questo senso il titolo mi sembra estremamente calzante: si racconta il silenzio, la sua dimensione avvolgente, la sua grandezza misteriosa e non – o non in primo piano – la vita dei monaci che in quel silenzio conducono la loro esistenza. Beauvois, invece, ha messo sulla scena una quotidianità in cui qualunque monaco – ma anche molti frequentatori di monasteri – può rispecchiarsi. Una quotidianità più forte e più eloquente della stessa eccezionalità della vicenda dei monaci-martiri di Tibhirine: quella quotidianità che sola spiega come questi uomini normalissimi e diversissimi tra loro abbiamo potuto insieme maturare con grande naturalezza una decisione che tutto è stata tranne che ordinaria.