“È
basco chi parla basco!”. Così anni fa il basco (di nazionalità
francese) Gabriel Mouesca rispose alla mia domanda su chi è basco.
Una risposta di semplicità e radicalità disarmanti, che mi è
tornata alla mente leggendo oggi due articoli sullo ius
soli temperato,
o ius
culturae
che approvar si voglia.
Nel
primo, intitolato “L’Italia salvi il proprio onore”, dopo aver
evocato “l’antica tradizione romana”, Ginevra Bompiani scrive
su il manifesto:
“Appartiene alla nostra cultura riconoscersi nel diverso. Non
farlo, sarebbe come per un editore rifiutare di tradurre testi
stranieri”.
Nella
rubrica che Umberto Galimberti tiene settimanalmente su D
de la
Repubblica,
risponde a un lettore citando Isocrate (IV sec. a.C.): “Atene ha
fatto sì che il nome di elleni designi non più una stirpe (ghénos),
ma un modo di pensare (diánoia).
Per cui siano chiamati elleni non quelli che hanno in comune con noi
il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia”.
Tre
approcci convergenti nel definire l’identità di un popolo al di là
di confini orografici
e
statali.
Una lingua, infatti – e in particolar modo quella basca, estranea
al ceppo indo-europeo
e quindi assai difficile da apprendere da parte di chi non la sente
parlare e la frequenta quotidianamente – è uno degli elementi
culturali di base, che ciascuno di noi assimila da subito e
indipendentemente dallo status giuridico della sua presenza in un
determinato territorio. Come un basco è basco indipendentemente dal
suo essere cittadino francese o spagnolo, nativo o immigrato, così
le popolazioni delle varie regioni e stati che hanno formato l’Italia
erano percepite e si percepivano “italiane” ben prima dell’unità
d’Italia – perseguita anche per questo motivo – e prima
di
essere capaci di esprimersi correntemente in italiano e non in
dialetto. È quindi l’educazione, la paideia,
la cultura che, formandosi e arricchendosi in un determinato
territorio, definisce progressivamente un’identità, in costante
divenire.
E
all’identità culturale italiana – anche nella sua estensione
etica e di costumi – hanno da sempre contribuito e continuano a
contribuire scrittori, filosofi e pensatori di ogni lingua, stirpe,
etnia. Grazie all’antica
e meravigliosa arte della traduzione – quella che rende alcune
persone capaci di “dire quasi la stessa cosa” in un’altra
lingua, secondo la felice espressione di Umberto Eco – sono
oggi
patrimonio
degli italiani anche autori che “italiani” non sono mai stati:
così,
allo
stesso titolo ritroviamo
oggi nel nostro dna culturale Omero e Virgilio, Agostino e Gregorio
Magno, Dante e Shakespeare, Erasmo e Machiavelli, Copernico e
Galileo, Manzoni e Proust, Kant e Croce, Calvino ed Hemingway…
Possiamo
allora dire, quasi venticinque secoli dopo Isocrate, che “il nome
di italiano” designi una paideia
comune, un modo di articolare e di comunicare il pensiero e le
emozioni che condividiamo, al di là delle opinioni personali, con
quanti intrecciano la loro esistenza quotidiana con la nostra e
quella dei nostri figli? E possiamo fare in modo che questa
“educazione” comune, questa cultura condivisa sia riconosciuta
come fondante uno ius,
un diritto che spetta a chiunque abbia avuto dalle vicende della vita
il dono di poterla condividere?
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