sabato 23 settembre 2017

LO IUS DELLA PAIDEIA


È basco chi parla basco!”. Così anni fa il basco (di nazionalità francese) Gabriel Mouesca rispose alla mia domanda su chi è basco. Una risposta di semplicità e radicalità disarmanti, che mi è tornata alla mente leggendo oggi due articoli sullo ius soli temperato, o ius culturae che approvar si voglia.
Nel primo, intitolato “L’Italia salvi il proprio onore”, dopo aver evocato “l’antica tradizione romana”, Ginevra Bompiani scrive su il manifesto: “Appartiene alla nostra cultura riconoscersi nel diverso. Non farlo, sarebbe come per un editore rifiutare di tradurre testi stranieri”.
Nella rubrica che Umberto Galimberti tiene settimanalmente su D de la Repubblica, risponde a un lettore citando Isocrate (IV sec. a.C.): “Atene ha fatto sì che il nome di elleni designi non più una stirpe (ghénos), ma un modo di pensare (diánoia). Per cui siano chiamati elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia”.
Tre approcci convergenti nel definire l’identità di un popolo al di là di confini orografici e statali. Una lingua, infatti – e in particolar modo quella basca, estranea al ceppo indo-europeo e quindi assai difficile da apprendere da parte di chi non la sente parlare e la frequenta quotidianamente – è uno degli elementi culturali di base, che ciascuno di noi assimila da subito e indipendentemente dallo status giuridico della sua presenza in un determinato territorio. Come un basco è basco indipendentemente dal suo essere cittadino francese o spagnolo, nativo o immigrato, così le popolazioni delle varie regioni e stati che hanno formato l’Italia erano percepite e si percepivano “italiane” ben prima dell’unità d’Italia – perseguita anche per questo motivo – e prima di essere capaci di esprimersi correntemente in italiano e non in dialetto. È quindi l’educazione, la paideia, la cultura che, formandosi e arricchendosi in un determinato territorio, definisce progressivamente un’identità, in costante divenire.
E all’identità culturale italiana – anche nella sua estensione etica e di costumi – hanno da sempre contribuito e continuano a contribuire scrittori, filosofi e pensatori di ogni lingua, stirpe, etnia. Grazie all’antica e meravigliosa arte della traduzione – quella che rende alcune persone capaci di “dire quasi la stessa cosa” in un’altra lingua, secondo la felice espressione di Umberto Eco – sono oggi patrimonio degli italiani anche autori che “italiani” non sono mai stati: così, allo stesso titolo ritroviamo oggi nel nostro dna culturale Omero e Virgilio, Agostino e Gregorio Magno, Dante e Shakespeare, Erasmo e Machiavelli, Copernico e Galileo, Manzoni e Proust, Kant e Croce, Calvino ed Hemingway…
Possiamo allora dire, quasi venticinque secoli dopo Isocrate, che “il nome di italiano” designi una paideia comune, un modo di articolare e di comunicare il pensiero e le emozioni che condividiamo, al di là delle opinioni personali, con quanti intrecciano la loro esistenza quotidiana con la nostra e quella dei nostri figli? E possiamo fare in modo che questa “educazione” comune, questa cultura condivisa sia riconosciuta come fondante uno ius, un diritto che spetta a chiunque abbia avuto dalle vicende della vita il dono di poterla condividere?

Nessun commento: