MONACI
E CINEMA
Nel
post precedente ho citato la pellicola Des
hommes et des dieux
di Xavier Beauvois – Grand
Prix du Jury
al Festival di Cannes del 2010 – che narra la vicenda dei monaci di
Tibhirine. La sua uscita nelle sale francesi e poi di tutta Europa
incontrò un successo di pubblico che molti accostarono a quello
conosciuto cinque anni prima dal documentario Die
grosse Stille
(Il
grande silenzio)
del regista tedesco Philip Gröning.
Successo che, in entrambi i casi, fu particolarmente significativo se
calcolato non sul numero totale degli spettatori, ma sul rapporto tra
numero di pellicole distribuite (e quindi di sale dove vennero
proiettati) e spettatori paganti.
Entrambi
presentano uno squarcio di vita monastica, l’esistenza quotidiana
di un esiguo gruppo di monaci che vivono in una più o meno radicale
clausura rispetto al mondo circostante. Gröning lo fa con un
accuratissimo lavoro documentario: ottenuto il permesso – diversi
anni dopo averlo richiesto – di filmare la vita all’interno della
Grande
Chartreuse
sopra Grenoble, ci presenta soprattutto un aspetto della vita dei
certosini: il silenzio che, nel documentario, come del resto
nell’esistenza quotidiana…, non è colmato nemmeno da una colonna
sonora. Il regista ha documentato il silenzio cghe ha saputo e potuto
“ascoltare”, cogliere, penetrare.
Beauvois,
invece, ha ricostruito un evento storico con estrema accuratezza e
immedesimazione. Come ambientazione ha scelto un monastero in
Marocco, abbandonato da anni; ha preteso che ogni attore trascorresse
un tempo in un monastero trappista e incontrasse i parenti del monaco
che avrebbe interpretato sullo schermo; ha voluto che nelle scene
delle liturgie in cappella fossero gli stessi attori a cantare salmi
e inni… Ma il film resta una fiction: nessun accenno esplicito è
fatto all’Algeria (e i militari indossano le uniformi dell’esercito
marocchino), alcuni episodi vengono rielaborati, rinunciando perfino
a particolari storici di sicuro effetto, i dialoghi sono sovente
lasciati all’improvvisazione degli attori, le condizioni
atmosferiche del set offrono soluzioni non programmate (come
l’improvvisa nevicata che fa riscrivere le scene del rapimento e
della marcia forzata finale.
Eppure,
da monaco, devo confessare che ho trovato il film su Tibhirine più
“reale” del documentario della Certosa. L’ottimo lavoro di
Gröning, infatti, mi è parso più una parabola sul silenzio e le
sue valenze che non uno spaccato di vita monastica. In questo senso
il titolo mi sembra estremamente calzante: si racconta il silenzio,
la sua dimensione avvolgente, la sua grandezza misteriosa e non – o
non in primo piano – la vita dei monaci che in quel silenzio
conducono la loro esistenza. Beauvois, invece, ha messo sulla scena
una quotidianità in cui qualunque monaco – ma anche molti
frequentatori di monasteri – può rispecchiarsi. Una quotidianità
più forte e più eloquente della stessa eccezionalità della vicenda
dei monaci-martiri di Tibhirine: quella quotidianità che sola spiega
come questi uomini normalissimi e diversissimi tra loro abbiamo
potuto insieme maturare con grande naturalezza una decisione che
tutto è stata tranne che ordinaria.
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