domenica 3 settembre 2017

MONACI E CINEMA

             Nel post precedente ho citato la pellicola Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois – Grand Prix du Jury al Festival di Cannes del 2010 – che narra la vicenda dei monaci di Tibhirine. La sua uscita nelle sale francesi e poi di tutta Europa incontrò un successo di pubblico che molti accostarono a quello conosciuto cinque anni prima dal documentario Die grosse Stille (Il grande silenzio) del regista tedesco Philip Gröning. Successo che, in entrambi i casi, fu particolarmente significativo se calcolato non sul numero totale degli spettatori, ma sul rapporto tra numero di pellicole distribuite (e quindi di sale dove vennero proiettati) e spettatori paganti.
         Entrambi presentano uno squarcio di vita monastica, l’esistenza quotidiana di un esiguo gruppo di monaci che vivono in una più o meno radicale clausura rispetto al mondo circostante. Gröning lo fa con un accuratissimo lavoro documentario: ottenuto il permesso – diversi anni dopo averlo richiesto – di filmare la vita all’interno della Grande Chartreuse sopra Grenoble, ci presenta soprattutto un aspetto della vita dei certosini: il silenzio che, nel documentario, come del resto nell’esistenza quotidiana…, non è colmato nemmeno da una colonna sonora. Il regista ha documentato il silenzio cghe ha saputo e potuto “ascoltare”, cogliere, penetrare.



      Beauvois, invece, ha ricostruito un evento storico con estrema accuratezza e immedesimazione. Come ambientazione ha scelto un monastero in Marocco, abbandonato da anni; ha preteso che ogni attore trascorresse un tempo in un monastero trappista e incontrasse i parenti del monaco che avrebbe interpretato sullo schermo; ha voluto che nelle scene delle liturgie in cappella fossero gli stessi attori a cantare salmi e inni… Ma il film resta una fiction: nessun accenno esplicito è fatto all’Algeria (e i militari indossano le uniformi dell’esercito marocchino), alcuni episodi vengono rielaborati, rinunciando perfino a particolari storici di sicuro effetto, i dialoghi sono sovente lasciati all’improvvisazione degli attori, le condizioni atmosferiche del set offrono soluzioni non programmate (come l’improvvisa nevicata che fa riscrivere le scene del rapimento e della marcia forzata finale.





              Eppure, da monaco, devo confessare che ho trovato il film su Tibhirine più “reale” del documentario della Certosa. L’ottimo lavoro di Gröning, infatti, mi è parso più una parabola sul silenzio e le sue valenze che non uno spaccato di vita monastica. In questo senso il titolo mi sembra estremamente calzante: si racconta il silenzio, la sua dimensione avvolgente, la sua grandezza misteriosa e non – o non in primo piano – la vita dei monaci che in quel silenzio conducono la loro esistenza. Beauvois, invece, ha messo sulla scena una quotidianità in cui qualunque monaco – ma anche molti frequentatori di monasteri – può rispecchiarsi. Una quotidianità più forte e più eloquente della stessa eccezionalità della vicenda dei monaci-martiri di Tibhirine: quella quotidianità che sola spiega come questi uomini normalissimi e diversissimi tra loro abbiamo potuto insieme maturare con grande naturalezza una decisione che tutto è stata tranne che ordinaria.



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