Questa sera una quarantina di persone che, come me, lo hanno avuto come guida spirituale in quegli anni si sono ritrovati nei locali della parrocchia e nella Grotta adiacente per pregare insieme e rinnovare il proprio impegno a camminare sulle tracce di Cristo seguendo l'esempio di quel presbitero.
Non potendo essere presente di persona, ho inviato questo messaggio.
Carissimi,
come
molti di voi, non avevo ancora diciassette anni quando mi giunse a
sorpresa dal nuovo coadiutore, un tal don Carlo, la proposta di
frequentare il gruppo giovanile parrocchiale – composto da ragazzi
e ragazze, esperienza assai rara in quegli anni, non dimentichiamolo!
– che stava prendendo forma. Era proprio così che il Charlie, come
avremmo presto imparato a chiamarlo, aveva scelto di agire
pastoralmente: non aspettare che noi adolescenti e giovani ci
accostassimo alle strutture parrocchiali esistenti, ma venirci
incontro, scovarci là dove eravamo, sollecitarci, coinvolgerci in un
progetto nuovo, che avrebbe preso forma poco alla volta, con la
partecipazione di tutti noi.
Sapete
tutti che di quel gruppo – assai variegato per origini, sensibilità
e anche per grado di partecipazione e coinvolgimento – ho fatto
parte dal 1970 al 1972. E sapete anche che è grazie alle esperienze
di preghiera in comune e di accostamento alla parola di Dio vissute
assieme a voi e grazie a una sollecitazione buttata lì quasi per
caso da don Carlo che ho conosciuto Bose nell’estate 1971, dove poi
sono entrato alla fine del liceo, nel settembre 1972.
Da
allora i miei contatti con don Carlo – che tra l’altro aveva
dovuto prodigarsi come “mediatore” per far comprendere ai miei
genitori la portata della mia scelta monastica – si sono
naturalmente diradati, ma hanno assunto una certa regolarità proprio
grazie alla vostra amicizia e alla vostra perseveranza nel cammino
tracciato dal Charlie: una fedeltà che non è venuta meno neanche
dopo lo spostamento di don Carlo a Santa Maria Hoè. Così gli auguri
telefonici in occasione delle grandi festività cristiane si sono
accompagnati agli incontri per la condivisione di alcuni momenti di
gioia e di dolore conosciuti da noi, membri di quei gruppi di ragazzi
e ragazze che nel frattempo siamo divenuti giovani e poi adulti e,
alcuni, anche ormai tranquillamente anziani!
Non
serve che vi ricordi cosa ha significato in particolare l’esserci
ritrovati qui alcuni anni fa per la celebrazione del 50° di ordinazione
presbiterale di don Carlo. La risposta entusiasta, la folta
partecipazione e il clima che abbiamo vissuto in quell’occasione la
dicono lunga sulla gratitudine condivisa per quanto don Carlo ha
saputo seminare in mezzo a noi. Per me poi è stato altrettanto e
forse ancor più significativo il momento forte dei funerali del
Charlie a Santa Maria Hoè: chi di noi c’era ricorda non solo il
profondo senso di “eucaristia”, di rendimento di grazie per aver
incontrato don Carlo nelle nostre vite (era per quello che eravamo
andati là), ma anche lo stupore dei parrocchiani di Santa Maria Hoè
e dei presbiteri concelebranti per la così folta partecipazione di
persone venute apposta da Milano in un giorno feriale per dire grazie
a quello che trent’anni prima era stato formalmente il loro prete
solo per pochi anni. Dico “formalmente” perché tutti noi che
siamo qui sappiamo bene che il Charlie non ha mai smesso di essere
“il nostro prete”!
Una
capacità di gettare il seme della Parola – ma anche di irrigarlo,
di coltivarlo, di farlo crescere fino a giungere a maturazione –
che ha attraversato tutti gli anni
in cui don Carlo ha risposto con la fedeltà alla fedeltà fondatrice
di Dio che lo ha voluto presbitero e pastore in mezzo alla sua
comunità. Un’opera che don Carlo ha condotto fino all’ultimo –
compresi gli ultimi anni senza più incarichi parrocchiali e gli
ultimi tempi della malattia – con alcune caratteristiche proprie
dell’agricoltore paziente: la capacità di aspettare chi tarda, di
pazientare con chi si assenta, di “fare segno” a chi non ne vuole
troppo sapere, di farsi tramite per chi sembra più lontano...
Carismi
che sono sì dono dello Spirito, ma che vanno anche custoditi,
alimentati, tradotti in comportamenti quotidiani. E questo credo di
poter dire che don Carlo ha saputo farlo con un costante esercizio in
alcune dimensioni fondamentali della fede cristiana. Innanzitutto il
“pensare” la propria fede e
la propria testimonianza cristiana: prendere consapevolezza di cosa
significa essere battezzati, camminare alla sequela del Signore,
cercare di vivere come Gesù, secondo la volontà del Padre. Poi,
conseguenza anche del “pensare”, l’autenticità:
l’essere
se stessi di fronte a Dio e di fronte agli altri, la pazienza di
pensare quello che si dice e il coraggio di dire quello che si pensa,
il non agire con secondi fini, il lasciar trasparire quello che
davvero brucia nel cuore. E inoltre, a livello più segnatamente
cristiano, l’amore
per la Parola di Dio, l’assiduità
con il Vangelo.
Ordinato
presbitero alla fine del pontificato di Pio XII, don Carlo inizierà
il suo ministero pastorale nella Chiesa locale presieduta da colui
che dopo pochi anni sarà papa Paolo VI, il papa che firmerà tutti i
documenti del Concilio voluto da papa Giovanni e ne curerà
l’applicazione. Così credo sia stato quasi naturale per il giovane
don Carlo respirare a pieni polmoni l’aria fresca entrata nella
Chiesa in quella stagione di nuova Pentecoste e, di conseguenza,
imparare a prestare attenzione
ai piccoli,
ai poveri, agli ultimi; riconoscere e manifestare la bellezza e la
gioia dello stare insieme nella gratuità dell’incontro come nel
lavoro in comune, ma anche, e soprattutto, nel pregare
insieme, giovani e anziani, presbiteri e semplici battezzati, uomini
e donne nelle situazioni di gioia e di sofferenza.
Don
Carlo è stato un uomo, un cristiano, un prete dal coraggio
profetico, il coraggio di chi non teme il giudizio degli altri quando
è convinto di camminare, pur con fatica e non senza contraddizioni,
sul cammino del Vangelo. Un prete che ci ha insegnato non solo a
convivere con le diversità e le tensioni – e noi che ricordiamo
quegli anni come quelli del nostro affacciarci alla vita della
comunità ecclesiale e della società civile sappiamo quante fossero
già allora, nella Milano degli anni settanta – ma a fare di esse
un tesoro, un dono grande per una maturità umana e cristiana.
Di
questi sentimenti ho avuto modo di parlare più volte anche con il
cardinal Ravasi che a don Carlo era legato da fraterna amicizia. Una
decina di giorni prima che don Carlo morisse, il card. Ravasi era a
Bose e lo avevo informato delle cattive condizioni di salute del
comune amico: mi promise che lo avrebbe chiamato e così fece,
riuscendo a dargli un ultimo saluto, colmo di gratitudine da entrambe
le parti.
Ora
il ringraziamento più bello e sincero che noi possiamo rendere a Dio
per averci dato don Carlo, e che possiamo rendere alla sua memoria è
quello di non dimenticare tutte queste cose, è quello di “non
disperderci” – come ci ha chiesto lui stesso poco prima di morire
– di non disperderci tra noi e di non disperdere il patrimonio di
vita piena di senso che abbiamo ricevuto in quegli anni e di cui
godiamo ancora oggi.