Sul sito del Consiglio Ecumenico delle Chiese è apparso oggi il mio commento al primo capitolo del profeta Giona, nel quadro degli studi biblici pensati come accompagnamento del Pellegrinaggio di Giustizia e Pace che le Chiese di tutto il mondo stanno compiendo, in comunione con gli uomini e le donne di buona volontà.
Riporto qui il testo italiano.
Giona 1, 1-16
Molte culture, un unico fine: la vita
Introduzione
L’intera vicenda del profeta Giona ci
parla di un tortuoso cammino di appello alla conversione e della
infinita misericordia di Dio sia nei confronti del profeta riluttante
che verso “la grande città nella quale sono più di centoventimila
persone … e una grande quantità di animali” (Giona 4,11).
Il primo capitolo ci mostra la
responsabilità che ogni credente ha di recarsi là dove il Signore
vuole che risuoni la sua parola. Quando questo cammino ci sembra
troppo duro e faticoso per noi, sono gli eventi della vita e i nostri
compagni di strada – che a volte non condividono nemmeno la nostra
stessa fede – a farci ritrovare la solidarietà umana e il retto
sentiero.
“Alzati! Va’ a Ninive … Giona si
mise in cammino per andare a Tarsis”. Non è proprio un
pellegrinaggio quello intrapreso da Giona: fugge in direzione opposta
alla meta indicatagli dal Signore, fugge pensando alla sua “pace”,
cercando di evitare contestazioni e ostilità, rinuncia a portare in
quella “grande città” l’appello alla conversione che avrebbe
riportato giustizia, mettendo fine alla malvagità degli abitanti. Ma
ogni cammino di conversione che intraprendiamo può trasformarsi, per
noi e per quanti incontriamo, in pellegrinaggio di giustizia e di
pace.
Riflessione
Il Signore chiede al suo profeta – a
colui cioè che non deve predire il futuro ma proferire parole
a nome di Dio – di andare incontro al nemico di Israele, la grande
potenza di Assiria per invitarla a cessare di commettere ingiustizie
e di propagare la guerra. Ninive, la capitale del regno di Assur è
sulle rive dell’Eufrate, a oriente di Israele; Giona fugge verso
Tarsis all’estremità occidentale del Mediterraneo. Ma nel testo
biblico la sua non è una semplice fuga, non è un imboccare un
cammino opposto a quello indicatogli dal Signore: la ripetizione del
verbo ebraico jarad
(“scendere”) descrive una discesa progressiva verso gli
inferi. Giona “scende” a Giaffa, poi “scende” verso Tarsis, e
ancora “scende verso il luogo più riposto della nave”;
successivamente, gettao in mare e inghiottito dal grosso pesce,
“scenderà” nel profondo degli abissi. Così, inviato a parlare
di conversione alla pace e alla giustizia, Giona ammutolisce, si
rinchiude in un silenzio tombale, scende verso le oscurità e lì si
addormenta, sperando forse di risvegliarsi solo una volta arrivato a
Tarsis, lontano dal Signore.
Ma la voce del Signore è potente e
trova chi la ascolta: non solo il vento e il mare – come si vedrà
nel seguito del racconto, e come accadrà anche con Gesù (cf. Mc
4,41) – ma perfino i marinai pagani. Costoro sono uomini di fedi e
culture diverse – “ciascuno di loro invoca il proprio Dio”
(Giona 1,5) – accomunati dal trovarsi di fronte a un pericolo che
minaccia tutti e dal volerlo fronteggiare senza che nessuno si perda.
Chiedono che Giona si unisca a questa preghiera che ha tante divinità
come destinatari, ma una sola intenzione: la salvezza di tutti.
Rispettosi della legge del mare che chiede di non abbandonare nessuno
nel pericolo, quei marinai pagani non si rassegnano nemmeno quando la
“sorte cadde su Giona” (Giona 1,7) come responsabile della
tempesta. Lo fanno uscire dal silenzio, lo interrogano, cercano di
capire, gli chiedono di conoscere la sua diversità di etnia,
provenienza, professione. Sono loro, marinai di altre fedi, a
strappare a Giona una confessione di fede in “YHWH, Dio del cielo
che ha creato il mare e la terra”. Lui, profeta di quel Dio, non lo
avrebbe nominato, se ne sarebbe rimasto in silenzio senza la
pressante richiesta dei marinai. E paradossalmente saranno proprio i
marinai pagani, e non Giona, a “implorare il Signore”, il Dio di
Israele: dopo aver tentato invano di salvare con le proprie forze la
nave e tutte le persone a bordo, i marinai si rassegnano a gettare
in mare Giona, ma prima invocano il Signore perché non imputi loro
sangue innocente. E, ottenuta la bonaccia, sono presi dal “timore
di YHWH” e giungono a offrirgli sacrifici e voti. Quello che non ha
fatto il profeta Giona – pregare il Signore Dio di Israele – lo
hanno fatto i marinai; quello che doveva essere il frutto della
predicazione del profeta – la conversione al Dio vivo e vero –
nasce dalla rettitudine di questi uomini che riconoscono l’azione
del Signore negli eventi della storia.
***
L’immagine dei pericoli di un viaggio
in mare e della condivisione di speranze e timori da parte di marinai
e passeggeri di provenienze, culture e fedi diverse mi richiama alla
mente una delle prime esperienze ecumeniche di un allora giovane
presbitero ortodosso, che sarebbe diventato un protagonista del
movimento ecumenico del XX secolo: Emilianos Timiadis. Giovane
cappellano dei marittimi in Belgio agli inizi degli anni9 ‘50, il
futuro Metropolita Emilianos si rende conto che i problemi con cui
ogni cappellano doveva confrontarsi erano gli stessi, a prescindere
dall’appartenza all’una o all’altra confessione cristiana. In
particolare, marinai ortodossi, cattolci e protestanti si sarebbero
trovati insieme per lunghi periodi di navigazione, senza possibilità
di partecipare alla vita liturgica delle rispettive chiese. Era
possibile avere per loro una catechesi e una cura pastorale comune
almeno durante le loro soste a terra? P. Emilianos prende contatto
con i cappellani cattolici dell’associazione Apostolatus maris e
a loro si aggiungono ben presto alcuni pastori anglicani e riformati.
L’accoglienza e l’abilità culinaria della madre di p. Emilianos
fa sì che per parecchi anni ad Antwerpen una quarantina di pastori e
preti di diverse chiese si ritrovano due volte al mese attorno a una
tavola ricca di piatti mediterranei per condividere speranze e
preoccupazioni del loro ministero pastorale.
La
sollecitudine di un pastore per le persone affidate alle sue cure e
l’audacia di un pungo di uomini di chiesa preoccupati che la furia
del mare non si impossessi anche dell’anima e dello spirito di
poveri marinai in balia delle onde diventano così profezia di una
ritrovata unità dei cristiani: la nave della chiesa può affrontare
i marosi nella comune fiducia che il Signore vuole che tutti “abbiano
la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Interrogativi
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“Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare” (Seneca): come sfruttare anche il vento contrario affinché ci conduca tutti insieme al porto desiderato della pace nella giustizia?
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Come far sì che le nostre diverse culture, etnie, fedi e appartenenze ecclesiali siano motivo di comune ricerca del bene per tutti?
Azioni
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Di fronte al fenomeno migratorio, applicare anche sulla terra la legge del mare, che è anche legge della montagna perché legge di umanità: chi è in pericolo di vita va salvato, sempre e comunque.
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Coinvolgere anche gli animali e il nostro rapporto con loro nel cammino di conversione dei nostri stili di vita (cf. Giona 3,7-9).
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