venerdì 25 maggio 2018

Gratitudine

Ricorrono in questo mese i due anni dal passaggio dalla morte alla Vita di don Carlo Turrini, che negli anni '70 è stato coadiutore nella parrocchia Santa Maria di Lourdes a Milano, animando i gruppi giovanili.
Questa sera una quarantina di persone che, come me, lo hanno avuto come guida spirituale in quegli anni si sono ritrovati nei locali della parrocchia e nella Grotta adiacente per pregare insieme e rinnovare il proprio impegno a camminare sulle tracce di Cristo seguendo l'esempio di quel presbitero.
Non potendo essere presente di persona, ho inviato questo messaggio.






Carissimi,
come molti di voi, non avevo ancora diciassette anni quando mi giunse a sorpresa dal nuovo coadiutore, un tal don Carlo, la proposta di frequentare il gruppo giovanile parrocchiale – composto da ragazzi e ragazze, esperienza assai rara in quegli anni, non dimentichiamolo! – che stava prendendo forma. Era proprio così che il Charlie, come avremmo presto imparato a chiamarlo, aveva scelto di agire pastoralmente: non aspettare che noi adolescenti e giovani ci accostassimo alle strutture parrocchiali esistenti, ma venirci incontro, scovarci là dove eravamo, sollecitarci, coinvolgerci in un progetto nuovo, che avrebbe preso forma poco alla volta, con la partecipazione di tutti noi.
Sapete tutti che di quel gruppo – assai variegato per origini, sensibilità e anche per grado di partecipazione e coinvolgimento – ho fatto parte dal 1970 al 1972. E sapete anche che è grazie alle esperienze di preghiera in comune e di accostamento alla parola di Dio vissute assieme a voi e grazie a una sollecitazione buttata lì quasi per caso da don Carlo che ho conosciuto Bose nell’estate 1971, dove poi sono entrato alla fine del liceo, nel settembre 1972.
Da allora i miei contatti con don Carlo – che tra l’altro aveva dovuto prodigarsi come “mediatore” per far comprendere ai miei genitori la portata della mia scelta monastica – si sono naturalmente diradati, ma hanno assunto una certa regolarità proprio grazie alla vostra amicizia e alla vostra perseveranza nel cammino tracciato dal Charlie: una fedeltà che non è venuta meno neanche dopo lo spostamento di don Carlo a Santa Maria Hoè. Così gli auguri telefonici in occasione delle grandi festività cristiane si sono accompagnati agli incontri per la condivisione di alcuni momenti di gioia e di dolore conosciuti da noi, membri di quei gruppi di ragazzi e ragazze che nel frattempo siamo divenuti giovani e poi adulti e, alcuni, anche ormai tranquillamente anziani!
Non serve che vi ricordi cosa ha significato in particolare l’esserci ritrovati qui alcuni anni fa per la celebrazione del 50° di ordinazione presbiterale di don Carlo. La risposta entusiasta, la folta partecipazione e il clima che abbiamo vissuto in quell’occasione la dicono lunga sulla gratitudine condivisa per quanto don Carlo ha saputo seminare in mezzo a noi. Per me poi è stato altrettanto e forse ancor più significativo il momento forte dei funerali del Charlie a Santa Maria Hoè: chi di noi c’era ricorda non solo il profondo senso di “eucaristia”, di rendimento di grazie per aver incontrato don Carlo nelle nostre vite (era per quello che eravamo andati là), ma anche lo stupore dei parrocchiani di Santa Maria Hoè e dei presbiteri concelebranti per la così folta partecipazione di persone venute apposta da Milano in un giorno feriale per dire grazie a quello che trent’anni prima era stato formalmente il loro prete solo per pochi anni. Dico “formalmente” perché tutti noi che siamo qui sappiamo bene che il Charlie non ha mai smesso di essere “il nostro prete”!
Una capacità di gettare il seme della Parola – ma anche di irrigarlo, di coltivarlo, di farlo crescere fino a giungere a maturazione – che ha attraversato tutti gli anni in cui don Carlo ha risposto con la fedeltà alla fedeltà fondatrice di Dio che lo ha voluto presbitero e pastore in mezzo alla sua comunità. Un’opera che don Carlo ha condotto fino all’ultimo – compresi gli ultimi anni senza più incarichi parrocchiali e gli ultimi tempi della malattia – con alcune caratteristiche proprie dell’agricoltore paziente: la capacità di aspettare chi tarda, di pazientare con chi si assenta, di “fare segno” a chi non ne vuole troppo sapere, di farsi tramite per chi sembra più lontano...
Carismi che sono sì dono dello Spirito, ma che vanno anche custoditi, alimentati, tradotti in comportamenti quotidiani. E questo credo di poter dire che don Carlo ha saputo farlo con un costante esercizio in alcune dimensioni fondamentali della fede cristiana. Innanzitutto il “pensare” la propria fede e la propria testimonianza cristiana: prendere consapevolezza di cosa significa essere battezzati, camminare alla sequela del Signore, cercare di vivere come Gesù, secondo la volontà del Padre. Poi, conseguenza anche del “pensare”, l’autenticità: l’essere se stessi di fronte a Dio e di fronte agli altri, la pazienza di pensare quello che si dice e il coraggio di dire quello che si pensa, il non agire con secondi fini, il lasciar trasparire quello che davvero brucia nel cuore. E inoltre, a livello più segnatamente cristiano, l’amore per la Parola di Dio, l’assiduità con il Vangelo.
Ordinato presbitero alla fine del pontificato di Pio XII, don Carlo inizierà il suo ministero pastorale nella Chiesa locale presieduta da colui che dopo pochi anni sarà papa Paolo VI, il papa che firmerà tutti i documenti del Concilio voluto da papa Giovanni e ne curerà l’applicazione. Così credo sia stato quasi naturale per il giovane don Carlo respirare a pieni polmoni l’aria fresca entrata nella Chiesa in quella stagione di nuova Pentecoste e, di conseguenza, imparare a prestare attenzione ai piccoli, ai poveri, agli ultimi; riconoscere e manifestare la bellezza e la gioia dello stare insieme nella gratuità dell’incontro come nel lavoro in comune, ma anche, e soprattutto, nel pregare insieme, giovani e anziani, presbiteri e semplici battezzati, uomini e donne nelle situazioni di gioia e di sofferenza.
Don Carlo è stato un uomo, un cristiano, un prete dal coraggio profetico, il coraggio di chi non teme il giudizio degli altri quando è convinto di camminare, pur con fatica e non senza contraddizioni, sul cammino del Vangelo. Un prete che ci ha insegnato non solo a convivere con le diversità e le tensioni – e noi che ricordiamo quegli anni come quelli del nostro affacciarci alla vita della comunità ecclesiale e della società civile sappiamo quante fossero già allora, nella Milano degli anni settanta – ma a fare di esse un tesoro, un dono grande per una maturità umana e cristiana.
Di questi sentimenti ho avuto modo di parlare più volte anche con il cardinal Ravasi che a don Carlo era legato da fraterna amicizia. Una decina di giorni prima che don Carlo morisse, il card. Ravasi era a Bose e lo avevo informato delle cattive condizioni di salute del comune amico: mi promise che lo avrebbe chiamato e così fece, riuscendo a dargli un ultimo saluto, colmo di gratitudine da entrambe le parti.
Ora il ringraziamento più bello e sincero che noi possiamo rendere a Dio per averci dato don Carlo, e che possiamo rendere alla sua memoria è quello di non dimenticare tutte queste cose, è quello di “non disperderci” – come ci ha chiesto lui stesso poco prima di morire – di non disperderci tra noi e di non disperdere il patrimonio di vita piena di senso che abbiamo ricevuto in quegli anni e di cui godiamo ancora oggi.



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