lunedì 27 agosto 2018

Il paese in città


Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Questa frase de La luna e i falò di Cesare Pavese mi ha sempre affascinato e a lungo immalinconito: ne percepivo e ne percepisco tutta la densa umanità, ma la sentivo come una verità che non mi apparteneva né poteva appartenermi, essendo nato e cresciuto in città.
I miei genitori venivano sì entrambi da un paese del lago di Como e nel secondo dopoguerra, all’indomani delle nozze, si erano spostati a Milano per lavoro, ma io non riuscivo a sentire che il loro paese mi appartenesse e che io gli appartenessi. Ogni anno trascorrevo sulle rive del lago le vacanze scolastiche (a dir la verità il grosso delle ore le passavo in acqua o in bicicletta), tutti i parenti più stretti abitavano là, quando ci andavo ero riconosciuto come “il figlio del B. e dell’A.” (come ancora si usa nei paesi del Medio Oriente), ne parlavo il dialetto (rigorosamente solo quando eravamo sul posto oppure quando, a Milano, parlavamo di persone o eventi del paese), eppure quel paese non poteva per me essere il luogo capace di darmi “il gusto di andarsene via”.






















Poi, prima dei vent’anni, me ne andai via da Milano per un altro paese, che però non avrebbe mai potuto diventare il mio, perché non mi aveva visto da piccolo e io non lo avevo contemplato con occhi di bambino. Fu proprio lì che conobbi meglio gli scritti di Pavese e che mi resi conto poco alla volta che avevo avuto la fortuna di vivere il paese in città: come un vero paese, Milano mi aveva dato il gusto di andarmene via, mi aveva fatto sentire di non essere solo, sapevo che nella gente, nelle strade e nei cortili c’era qualcosa di mio che restava lì ad aspettarmi anche quando non c’ero.
Non so se sia un privilegio raro, ma io non ho mai sentito la città come “anonima”: per me aveva il volto e il nome di persone e luoghi precisi, concentrati ma non racchiusi nel perimetro di un quartiere. L’aver trascorso gli anni prescolari in un vecchio stabile del centro città sul cui cortile interno si affacciavano tutti i retrobottega dell’isolato mi ha permesso di fare acquisti anche da solo, senza uscire sul marciapiede, in quello che per quel bambino di cinque anni che ero si rivelava come un immenso centro commerciale ante litteram. A qualcosa ha giovato l’aver sempre potuto andare a scuola a piedi, come a piedi andavo con gli amici allo stadio, mentre per i tragitti più lunghi verso i campi di calcio in periferia la bicicletta funzionava benissimo. L’aver avuto compagni di scuola con i genitori che lavoravano in portinerie, o nella bottega del calzolaio o dell’ombrellaio, o come barbiere, aveva fatto sì che nessun condominio mi intimidisse. Anche l’aver giocato in una squadra di calcio in cui i compagni erano per metà amici dell’oratorio e per l’altra metà compagni di scuola mi ha consentito di coltivare una certa familiarità paesana al cuore di una metropoli.





Tutto questo – e tanto altro di cui non ho ancora preso piena consapevolezza oltre quarant’anni dopo “essermene andato” – sono debitore soprattutto ai tanti amici che a Milano sono rimasti o che a Milano ritornano non appena l’amicizia ci richiama per condividere una gioia o un dolore.


Tutto questo fa parte del dono raro di aver vissuto “il paese in città”.
Con profonda gratitudine ci tenevo a scriverlo oggi, 27 agosto, anniversario del giorno in cui Cesare Pavese ci ha lasciato, chiedendo di perdonarlo e di non fare troppi pettegolezzi.






lunedì 13 agosto 2018

Leva obbligatoria? Né educativa né romantica


Sono consapevole che la proposta del Ministro degli Interni di re-introdurre la leva obbligatoria è l’ennesima arma di distrazione di massa e che quindi non verrà ulteriormente approfondita, tanto meno specificando particolari come: durata, estensione (solo i maschi?), esoneri e rinvii (prima gli italiani?), servizio armato o disarmato, copertura dei costi, edifici e infrastrutture necessarie…
Un po’ troppo per Ferragosto!
Non so poi cosa possa trovare di “romantico” la Ministra della Difesa in questa idea insana di “educare” le persone insegnando loro a usare le armi. Credo che “romantico” sia l’ultimo aggettivo che venga in mente a chiunque abbia fatto il servizio militare obbligatorio quando ripensa a quell’esperienza. Il penultimo aggettivo forse è “educativo”…
Da parte mia vorrei riprendere una riflessione sulla smilitarizzazione del servizio civile e sull’inutilità della leva obbligatoria che feci nella primavera del 1977, assieme agli altri obiettori di coscienza al servizio militare che, come me, svolgevano il servizio civile sostitutivo presso il Comune di Chiaverano (TO).
Era stata presentata da poco una proposta di Legge (n° 883/1976) per la smilitarizzazione e la regionalizzazione del Servizio civile. Naturalmente la Legge non vide mai la luce. Tra gli altri, l’on. Francesco Martorelli (P.C.I.), allora membro nella Commissione Difesa della Camera, così motivò l’opposizione del suo partito alla proposta di Legge: “Accogliere automaticamente le richieste di Servizio civile sarebbe un altro passo verso l’abolizione della leva e l’esercito di mestiere [come avverrà con la legge 226/2004] … proprio il contrario dell’esercito democratico di popolo che noi vogliamo realizzare”.
Pubblicammo la nostra riflessione (si noti che noi 5 obiettori del Collettivo avevamo votato alle precedenti elezioni politiche per 5 diversi partiti, mentre la lista civica che amministrava il Comune aveva come partito di riferimento un sesto ancora…) sul Bollettino sul Servizio Civile n. 6 – Coordinamento piemontese – di cui assicuravamo la redazione e di cui riproduco qui la copertina e le pagine contenenti il nostro testo.



Evidenzio solo alcune frasi finali che, al di là del linguaggio, mi paiono ancora attualissime nella discussione di questi giorni:
L’esercito sarà di popolo o di mestiere a seconda delle istituzioni dalle quali dipende ed è controllato, non in base al numero più o meno consistente di obiettori di coscienza [nella società]. Tutto questo senza entrare nel merito dell’utilità di un esercito, qualunque esso sia, senza chiederci se un esercito sia in grado di difenderci dai nostri veri nemici, senza domandarci come possano degli strumenti di morte assicurare pane e lavoro, senza interrogarci come mai dopo millenni in cui si preparano guerre, non abbiamo ancora avuto la pace.
Collettivo O.d.C. di Chiaverano (TO)



domenica 22 luglio 2018

Seneca Lucilio suo

Qualche anno fa gli studenti del Liceo di Gallarate - che avevo conosciuto in precedenza per un incontro su "Violenza e religioni", su cui magari tornerò in un altro post - mi interpellarono sul tema del suicidio, sul quale avevano riflettuto a partire dalla Lettera LXX di Seneca all'amico Lucilio. Il genere letterario che scelsero fu quello di redigere due lettere come su loro fossero Lucilio e io Seneca, chiedendomi di rispondere a nome del filosofo.
Qui di seguito la risposta.



Epistula LXX bis – MMDCCLXIX a.U.c.

Seneca Lucilio suo salutem
È curioso assai che nell’universo in cui tu ed io siamo sospesi possano trascorrere anni interi senza che ci si incontri. E che al contempo si possano fissare pensieri e parole cum stilo et membrana e farle giungere in un baleno ben oltre ogni limes da noi conosciuto – come le colonne d’ercole o la susa di Alessandro Magno – o quel vallo che Adriano imperatore ha poi costruito nella sempre viva illusione che un muro possa fermare la paura dell’altro.
A proposito di mura e di scrittura, ho saputo da Jorge Luis Borges – un narratore che non esiterei ad accostare ad Omero, e non solo a motivo della comune cecità – che Shih Huang, l’imperatore della lontana Cina che decise di costruire la muraglia magna, fece anche proibire e dare alle fiamme tutti i libri delle epoche precedenti il suo regno… Il nesso tra mura e rogo di papiri mi inquieta, anche perché, come dice Heinrich Heine – l’hai già incontrato? – “Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”.
Ma veniamo agli interrogativi che mi poni, provocato dalla mia epistola in cui con te ragiono ad alta voce della facoltà umana – e solo umana, non dimenticarlo – del darsi la morte. Da quando la scrissi è pur vero che, come dici tu, “tutto è cambiato ma non l’uomo”, ma cambiato è anche lo sguardo sull’uomo. Incuriosito dal tuo accenno, ho voluto incontrare quel Galilei e farmi mostrare il suo artifizio che rende vicino il lontano. Lo stupore mi ha portato a rovesciare lo strumento per capirne il marchingegno: ed ecco che il vicino mi diventava lontano… Ma allora la realtà dipende dagli occhi con cui la guardiamo? E se provassimo a guardarla con gli occhi degli altri? Alcuni seguaci di quel Nazareno di cui parla Tacito – come quella strana coppia di giudei, tali Pietro e Paolo, messi a morte a Roma dal mio discepolo Nerone più o meno negli stessi mesi in cui ebbe fine anche la mia vita – dicono addirittura che la vera contemplazione consista proprio nel riuscire a vedere il mondo con gli occhi di Dio… Empia pretesa? Ma non è forse altrettanto empio il pensare che il nostro sguardo sia l’unico possibile su ogni realtà?
Così, ripensando al suicidio, ho iniziato a tener in maggior conto situazioni, atteggiamenti e interpretazioni che forse non avevo considerato a sufficienza o, addirittura, che non avrei mai ritenuto possibili. Qual è, infatti, il confine che separa un martire che non fa nulla per scongiurare la propria morte da un suicida che la anticipa? E poi che dire degli emuli attuali di Sansone, disposti a darsi la morte per trascinare con sé gli odiati nemici? Non pochi di loro, tra l’altro, possono considerarsi discendenti dei Filistei sterminati dall’eroe biblico, martire o suicida che sia.
Ma il discorso si complica ancor di più quando ci si avvicina alla fine della vita, a quel tempo ormai sempre più dilatato cui si dà il nome di finevita, quella notte in cui sofferenza fisica e dolore intimo alterano i sentimenti del malato come dei suoi cari. Oggi senti parlare di suicidio assistito e di eutanasia, di accanimento terapeutico e di testamento biologico. E in tutto questo le leggi degli stati dovrebbero sforzarsi di normare e disciplinare, in nome di un sentire comune, di un’etica condivisa, situazioni in cui la dimensione personale resta decisiva. Compito non facile, per il quale il diffuso orientamento giuridico che considera reato il tentato omicidio e non il tentato suicidio si rivela insufficiente.
Credo che se fossimo saggi e franchi, cioè se accettassimo di pensare quello che diciamo e di dire quello che pensiamo, dovremmo riconoscere che il suicidio rimane una domanda muta che esige un grande rispetto. Nella mia lettera precedente cercavo di dar conto di un dato acclarato: da che mondo è mondo, vi sono esseri umani che, nonostante la spinta vitale che li abita fin dal grembo materno, decidono di darsi la morte. Cercavo anche di fornirne ragioni positive, senza per questo incitare alcuno a tale gesto: istigare al suicidio è un reato non solo moderno. “Ne uccide più la lingua della spada” è verità antichissima.
Cosa spinge un essere umano a suicidarsi? La lucida consapevolezza, da me invocata, di come sia “vergognoso vivere di rapina” mentre è “bellissimo morire di rapina”? Temo siano pochi ad appartenere a questa schiera. Un dolore insopportabile? Una vergogna insostenibile? La paura di affrontare un futuro incombente? La perdita del senno? L’esito di una malattia? La scomparsa di una persona amata? Ogni situazione è diversa e ciascuna merita profondo rispetto e di essere guardata con gli occhi dell’altro.
Sento dire dai discepoli di Gesù di Nazareth che la vita non appartiene all’essere umano: gli è stata data e andrebbe restituita puntualmente al Creatore al momento da Questi fissato e non prima. Ma anche alcuni dei cristiani riconoscono che l’atto del morire è arte difficile da apprendere, è passaggio vissuto a denti stretti nel dolore e nella fatica di comprenderne il senso: dovrebbe essere compiuto con confidenza e speranza, con un assenso all’ora che sopraggiunge senza che la si possa scegliere. Ma quando non si riesce più a cogliere la vita come tale, che senso ha protrarla?
Ho avuto modo anche di riflettere su un altro aspetto dell’enigma del suicidio: che il suicida lo voglia o no, il suo gesto è sempre fonte di dolore e di colpevolizzazione in chi resta. Credo che il più delle volte il suicidio “uccide” anche quelli che vivevano con il suicida, uccide la comunione che esisteva tra loro, uccide la possibilità di comprensione e desta in chi rimane interrogativi angoscianti e privi di risposta. Allora, di fronte a un suicidio, varrebbe la pena di sospendere ogni giudizio e cogliere invece l’occasione per verificare il “suicidio che ci abita”, il nostro rifiuto della vita che così sovente consumiamo senza avere la forza o la disperazione per darci la morte fisica.
Non ti sembri che sia anch’io divenuto un discepolo del Cristo – anche se qualcuno ha voluto dipingermi come il pensatore romano più vicino ai cristiani – ma sono convinto che ciascuno di noi sia chiamato a privilegiare fino all’ultimo l’amore: l’amore che sa dare e l’amore che sa ricevere. È in gioco la dignità e la qualità di ogni essere umano: questo mi pare l’elemento che conta in definitiva.
Allora il problema resta sempre il medesimo, caro Lucilio: cosa davvero importa per noi nella vita. Già, perché – come diceva un’arzilla vecchietta ebrea al suo nipote Jonathan Safran Foer che gli chiedeva perché mai, letteralmente morente di fame, avesse rinunciato a mangiare un pezzo di carne di maiale che avrebbe potuto salvarle la vita – “Se niente importa, non c’è niente da salvare”.
Cura ut valeas

Seneca

Post scriptum: mi dicono che nel xxi secolo dell’era volgare scrivere con i caratteri maiuscoli equivalga a urlare. Parce, amice! Non è questa la mia intenzione, ma il minuscolo non lo conosco ancora...

venerdì 25 maggio 2018

Gratitudine

Ricorrono in questo mese i due anni dal passaggio dalla morte alla Vita di don Carlo Turrini, che negli anni '70 è stato coadiutore nella parrocchia Santa Maria di Lourdes a Milano, animando i gruppi giovanili.
Questa sera una quarantina di persone che, come me, lo hanno avuto come guida spirituale in quegli anni si sono ritrovati nei locali della parrocchia e nella Grotta adiacente per pregare insieme e rinnovare il proprio impegno a camminare sulle tracce di Cristo seguendo l'esempio di quel presbitero.
Non potendo essere presente di persona, ho inviato questo messaggio.






Carissimi,
come molti di voi, non avevo ancora diciassette anni quando mi giunse a sorpresa dal nuovo coadiutore, un tal don Carlo, la proposta di frequentare il gruppo giovanile parrocchiale – composto da ragazzi e ragazze, esperienza assai rara in quegli anni, non dimentichiamolo! – che stava prendendo forma. Era proprio così che il Charlie, come avremmo presto imparato a chiamarlo, aveva scelto di agire pastoralmente: non aspettare che noi adolescenti e giovani ci accostassimo alle strutture parrocchiali esistenti, ma venirci incontro, scovarci là dove eravamo, sollecitarci, coinvolgerci in un progetto nuovo, che avrebbe preso forma poco alla volta, con la partecipazione di tutti noi.
Sapete tutti che di quel gruppo – assai variegato per origini, sensibilità e anche per grado di partecipazione e coinvolgimento – ho fatto parte dal 1970 al 1972. E sapete anche che è grazie alle esperienze di preghiera in comune e di accostamento alla parola di Dio vissute assieme a voi e grazie a una sollecitazione buttata lì quasi per caso da don Carlo che ho conosciuto Bose nell’estate 1971, dove poi sono entrato alla fine del liceo, nel settembre 1972.
Da allora i miei contatti con don Carlo – che tra l’altro aveva dovuto prodigarsi come “mediatore” per far comprendere ai miei genitori la portata della mia scelta monastica – si sono naturalmente diradati, ma hanno assunto una certa regolarità proprio grazie alla vostra amicizia e alla vostra perseveranza nel cammino tracciato dal Charlie: una fedeltà che non è venuta meno neanche dopo lo spostamento di don Carlo a Santa Maria Hoè. Così gli auguri telefonici in occasione delle grandi festività cristiane si sono accompagnati agli incontri per la condivisione di alcuni momenti di gioia e di dolore conosciuti da noi, membri di quei gruppi di ragazzi e ragazze che nel frattempo siamo divenuti giovani e poi adulti e, alcuni, anche ormai tranquillamente anziani!
Non serve che vi ricordi cosa ha significato in particolare l’esserci ritrovati qui alcuni anni fa per la celebrazione del 50° di ordinazione presbiterale di don Carlo. La risposta entusiasta, la folta partecipazione e il clima che abbiamo vissuto in quell’occasione la dicono lunga sulla gratitudine condivisa per quanto don Carlo ha saputo seminare in mezzo a noi. Per me poi è stato altrettanto e forse ancor più significativo il momento forte dei funerali del Charlie a Santa Maria Hoè: chi di noi c’era ricorda non solo il profondo senso di “eucaristia”, di rendimento di grazie per aver incontrato don Carlo nelle nostre vite (era per quello che eravamo andati là), ma anche lo stupore dei parrocchiani di Santa Maria Hoè e dei presbiteri concelebranti per la così folta partecipazione di persone venute apposta da Milano in un giorno feriale per dire grazie a quello che trent’anni prima era stato formalmente il loro prete solo per pochi anni. Dico “formalmente” perché tutti noi che siamo qui sappiamo bene che il Charlie non ha mai smesso di essere “il nostro prete”!
Una capacità di gettare il seme della Parola – ma anche di irrigarlo, di coltivarlo, di farlo crescere fino a giungere a maturazione – che ha attraversato tutti gli anni in cui don Carlo ha risposto con la fedeltà alla fedeltà fondatrice di Dio che lo ha voluto presbitero e pastore in mezzo alla sua comunità. Un’opera che don Carlo ha condotto fino all’ultimo – compresi gli ultimi anni senza più incarichi parrocchiali e gli ultimi tempi della malattia – con alcune caratteristiche proprie dell’agricoltore paziente: la capacità di aspettare chi tarda, di pazientare con chi si assenta, di “fare segno” a chi non ne vuole troppo sapere, di farsi tramite per chi sembra più lontano...
Carismi che sono sì dono dello Spirito, ma che vanno anche custoditi, alimentati, tradotti in comportamenti quotidiani. E questo credo di poter dire che don Carlo ha saputo farlo con un costante esercizio in alcune dimensioni fondamentali della fede cristiana. Innanzitutto il “pensare” la propria fede e la propria testimonianza cristiana: prendere consapevolezza di cosa significa essere battezzati, camminare alla sequela del Signore, cercare di vivere come Gesù, secondo la volontà del Padre. Poi, conseguenza anche del “pensare”, l’autenticità: l’essere se stessi di fronte a Dio e di fronte agli altri, la pazienza di pensare quello che si dice e il coraggio di dire quello che si pensa, il non agire con secondi fini, il lasciar trasparire quello che davvero brucia nel cuore. E inoltre, a livello più segnatamente cristiano, l’amore per la Parola di Dio, l’assiduità con il Vangelo.
Ordinato presbitero alla fine del pontificato di Pio XII, don Carlo inizierà il suo ministero pastorale nella Chiesa locale presieduta da colui che dopo pochi anni sarà papa Paolo VI, il papa che firmerà tutti i documenti del Concilio voluto da papa Giovanni e ne curerà l’applicazione. Così credo sia stato quasi naturale per il giovane don Carlo respirare a pieni polmoni l’aria fresca entrata nella Chiesa in quella stagione di nuova Pentecoste e, di conseguenza, imparare a prestare attenzione ai piccoli, ai poveri, agli ultimi; riconoscere e manifestare la bellezza e la gioia dello stare insieme nella gratuità dell’incontro come nel lavoro in comune, ma anche, e soprattutto, nel pregare insieme, giovani e anziani, presbiteri e semplici battezzati, uomini e donne nelle situazioni di gioia e di sofferenza.
Don Carlo è stato un uomo, un cristiano, un prete dal coraggio profetico, il coraggio di chi non teme il giudizio degli altri quando è convinto di camminare, pur con fatica e non senza contraddizioni, sul cammino del Vangelo. Un prete che ci ha insegnato non solo a convivere con le diversità e le tensioni – e noi che ricordiamo quegli anni come quelli del nostro affacciarci alla vita della comunità ecclesiale e della società civile sappiamo quante fossero già allora, nella Milano degli anni settanta – ma a fare di esse un tesoro, un dono grande per una maturità umana e cristiana.
Di questi sentimenti ho avuto modo di parlare più volte anche con il cardinal Ravasi che a don Carlo era legato da fraterna amicizia. Una decina di giorni prima che don Carlo morisse, il card. Ravasi era a Bose e lo avevo informato delle cattive condizioni di salute del comune amico: mi promise che lo avrebbe chiamato e così fece, riuscendo a dargli un ultimo saluto, colmo di gratitudine da entrambe le parti.
Ora il ringraziamento più bello e sincero che noi possiamo rendere a Dio per averci dato don Carlo, e che possiamo rendere alla sua memoria è quello di non dimenticare tutte queste cose, è quello di “non disperderci” – come ci ha chiesto lui stesso poco prima di morire – di non disperderci tra noi e di non disperdere il patrimonio di vita piena di senso che abbiamo ricevuto in quegli anni e di cui godiamo ancora oggi.



mercoledì 16 maggio 2018

Con il Nome di Gesù sulle labbra

Tre anni e tre mesi fa, ventuno giovani copti furono trucidati per mano del terrorismo islamico sulle coste libiche per ragioni esplicitamente religiose.
Il video del martirio, ripreso in diretta e diffuso su internet, mostrava questi giovani intenti a pregare invocando il nome del Salvatore Gesù mentre il capo dei boia spiegava le ragioni di quel gesto disumano.
Ieri le loro spoglie sono ritornate in Egitto e sono state collocate in un santuario costruito per l'occasione nel loro villaggio natale, al-'Awr. Finalmente i loro corpi riposano in pace, in mezzo alla loro comunità, e possono essere fonte di benedizione e di grazie per tutti.
Come ha affermato anba Pafnutius, metropolita di Samallut, in occasione dell'accoglienza delle reliquie dei martiri:
"Per la prima volta nella Storia il martirio di cristiani è mandato in onda in diretta in tutto il mondo". 



Riprendo qui il commento al loro martirio scritto in quel tragico frangente dall'amico fraterno Anba Kyrolos, vescovo copto di Milano, nel frattempo passato a sua volta dalla morte alla Vita.


Martiri grandiosi, che cosa vede il mondo in voi? Eroi, che cosa significa quello che si sente dire di voi? Che cos’è questa fede di cui parlano piccoli e grandi, vicini e lontani? Sono immagini meravigliose. Tutti ci chiediamo: come può un agnellino, caduto nelle grinfie di un lupo, comportarsi da leone? È davvero straordinario. Come mai il lupo minaccioso si copre la faccia davanti all’agnello razionale [1]?  Perché è così debole davanti a voi?
Cari agnelli, ieri il lupo vi ha filmato mentre vi sgozzava credendo di spaventare e far paura agli altri agnelli. Oggi, invece, si pente amaramente per le immagini che ha registrato. Quelle immagini e quel video, girati dalla mano del lupo, oggi vengono usati per annunciare al mondo intero la dolcezza della vita vissuta insieme a Cristo. In questo video si vedono agnellini razionali condotti al macello, i quali non hanno aperto bocca se non per pregare (Is 53,7). Erano agnelli razionali che camminavano sulle orme di Cristo mostrando con la loro debolezza ciò che è più grande della forza (cf. 1Cor 1,25). Cari agnelli martiri, da dove avete preso quel coraggio? Quando eravate nelle grinfie del lupo, forse che vi siete ricordati delle storie dei martiri che la Chiesa vostra madre vi ha raccontato sin da quando eravate piccoli? Vi siete forse ricordati delle recite che avete visto sui martiri? È così che vi siete sentiti pieni di forza? Chissà, forse da bambini avete voi stesso partecipato a una recita sui martiri. Eppure, stavolta voi non avete girato un film, non siete degli attori. Sono il mondo e la storia ad aver filmato la potenza della vostra fede, la grandezza della vostra speranza, la perfezione del vostro amore per Dio (cf. 1Cor 13,13). Non avete recitato in un film di orrore che spaventa la gente. Voi siete stati ambasciatori della patria celeste: con i piedi eravate sulla terra ma con il cuore vi libravate già nel cielo dei cieli.
I lupi minacciosi che vi hanno rapiti e sgozzati non conoscevano la verità della vostra fede né la storia dei vostri padri spirituali. Non conoscevano la dolcezza e la saldezza della vostra fede, né ciò che è inciso nei vostri cuori fin dall’infanzia. Non conoscevano lo spirito che vi alimentava nel profondo insegnandovi che la sofferenza del tempo presente non è paragonabile alla gloria futura che dovrà essere rivelata in voi (Rm 8,18). Non sapevano neanche che lo spirito mite e pacifico è prezioso davanti a Dio (1Pt 3,4).  Non sapevano e non credevano che quelle tremende sofferenze che vi infliggevano e le tecniche più moderne di tortura che usavano contro di voi non erano altro per voi che un ponte dorato che vi avrebbe portato alla vita eterna. Voi siete l’orgoglio della Chiesa, vostra madre, la madre dei martiri. Voi siete martiri figli di martiri. Voi siete il nostro vanto.
Santi martiri, ieri eravate come il martire Stefano che fu lapidato non per aver commesso un crimine ma perché era seguace di Cristo che passava beneficando (Atti 10,38). Ieri coloro che vi stavano attorno erano simili a quelli che stavano intorno a Stefano: quelli attendevano la sua morte per lapidazione, questi la vostra morte a fil di coltello. I vostri boia e quelli del martire Stefano non riuscivano a vedere oltre le pietre e le spade. Voi, invece, vedevate il cielo aperto sopra di voi e per voi, e Cristo seduto sul trono della sua gloria (Atti 7,56) che già asciugava ogni lacrima dai vostri occhi (Ap 21,4). La vostra morte e il modo in cui vi hanno uccisi ci fanno male. Tuttavia, sapere come il cielo vi ha accolto spazza via ogni dolore.
Ieri faticavate nel cercare un lavoro con cui portare a casa il pane e dividerlo con le vostre famiglie. Oggi, vi riposate nelle braccia del vostro Creatore il quale si prenderà egli stesso offrirà da mangiare e da bere ai vostri fratelli dalle sue mani. Ieri camminavate con addosso la tenuta dei condannati a morte. Oggi, avete vinto e camminate con Cristo indossando vesti bianche, secondo la sua promessa indefettibile fatta a tutti i vincitori (Ap 3,5).
Ieri, mentre venivate portati al patibolo, vedevate intorno a voi la solita terra e il solito cielo. Oggi, voi vivete in un nuovo cielo e in una nuova terra (Ap 21,1). Dio che scruta le profondità conosceva i vostri cuori. Per questo vi ha trasformati da semplici operai a suoi testimoni. Ieri chiedevate a chi vi stava intorno di pregare per voi e per la vostra ricerca di un lavoro in una terra lontana. Da oggi, invece, avrete un lavoro glorioso: sarete intercessori dei poveri, vivendo nel seno del Padre Onnipotente che si prende cura di coloro che si rifugiano in lui (Sal 2,12).
Ieri mi dicevate: “Padre, ricordami”. Oggi sono io a dirvi: “Santi martiri ricordatevi di me nelle vostre preghiere”. Ieri ci chiedevate di pregare per te. Oggi siamo noi tutti a supplicarvi di ricordarvi di noi davanti a Colui che è assiso sul trono (Ap 21,5).
[1] In arabo nāiq, lett. “dotato di parola, parlante”. È la traduzione dell’aggettivo greco, utilizzato anche in copto, λογικός, che ritroviamo nel Nuovo Testamento, nei Padri e nell’eucologia, e che significa “secondo il Logos, assimilato al Logos, unito al Logos” . Spesso viene tradotto come “razionale” o “spirituale” ma si tratta di una traduzione imperfetta che non rende la ricchezza del termine Logos.  L’Agnello razionale per eccellenza è il Cristo, il Logos che, presa una carne, si è sacrificato sulla Croce per la salvezza dell’uomo. Nell’anafora di san Cirillo, usata nella Chiesa copta ortodossa, si legge: “Attraverso il quale [il Figlio Unigenito, Gesù Cristo] offriamo a te e allo Spirito Santo – Trinità santa, coessenziale e indivisa – questo sacrificio razionale [paishushoushi enlogikon] e questo servizio incruento”. Qui l’autore parla di “agnelli razionali”, di cristiani, quindi, uniti nel sommo sacrificio dell’Agnello, loro buon Pastore (N.d.T.)
anba Kyrollos
vescovo copto ortodosso di Milano
esarca patriarcale per l’Europa
abate del monastero di san Scenute (Lacchiarella, MI)

Per questo post ringrazio il monaco copto che cura il sito:

martedì 15 maggio 2018

Il servizio che non avrà mai fine

Oggi, nella Festa di san Pacomio, monaco e padre di ogni santa koinonia,
viene proclamato il brano del Vangelo (Luca 12,32-40)
in cui viene annunciato che il Signore, quando tornerà nella gloria,
compirà per i suoi quel gesto di servizio che ha compiuto durante tutta la sua vita,
donata per gli amici.
Ecco il gesto che anche noi possiamo compiere ogni giorno,
sapendo che - come l'amore - non avrà mai fine.





Luca 12,32-40

32Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
33Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. 34Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro! 39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo".


“Non temere piccolo gregge … Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune … Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità i salvati … Il padrone al suo ritorno si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. In questo intreccio di testi lucani c’è tutta l’avventura evangelica di Pacomio e c’è anche il cammino che la sua intuizione cenobitica ha tracciato per la nostra vicenda comunitaria sotto la guida del Vangelo.
Siamo un piccolo gregge che non deve temere. Non deve temere perché sa che il Signore lo accompagna nonostante e al di là delle sue infedeltà, perché sa che l’unità che solo il Signore edifica è più grande del Divisore e delle divisioni che questi suscita, perché, soprattutto, sa che le energie della risurrezione sono sempre più forti della morte e delle sue contraddizioni. Un piccolo gregge che deve restare piccolo anche se e quando ingrossa le sue fila – anche se non quanto la comunità pacomiana – e che non deve temere nemmeno questa crescita, ma solo il raffreddarsi della carità.
Per questa sfida umanamente impossibile basta stare tutti insieme e avere ogni cosa, ogni realtà, ogni bene in comune, nella solidarietà dei peccatori e nella misericordia dell’Unico che i peccatori li ha sempre amati e li ama come figli perduti e ritrovati. Tutti insieme, con un cuore solo e un’anima sola, quella di Cristo.
È dalla qualità dello stare tutti insieme e del condividere ogni cosa che il Signore – e lui solo – riconosce la comunità cristiana e monastica che è nascosta al cuore di una “banda”di uomini e donne i quali hanno un unico intento e per i quali il Signore ha procurato una casa dove abitare insieme e accogliere gli altri.
A questa comunità il Signore fa il dono grande di aggiungere i “salvati”, cioè coloro che lui ha già salvato con la sua morte e risurrezione, non coloro che pensano di mettersi in salvo entrando in una comunità. Questi “già salvati”, dono di Dio, talora assumono il volto di nuovi fratelli o sorelle, talaltra hanno i tratti familiari o sconosciuti dell’ospite, del pellegrino, dello straniero, molto più spesso, anzi “ogni giorno” il Signore accresce la ricchezza della comunità con il dono del fratello e della sorella che è sempre “nuovo” anche se ci sta accanto da mesi, anni, decenni. E di tutte queste “aggiunte di Dio” la comunità e ciascuno di noi è chiamato a farsi carico, rallegrandosi delle “visite del Verbo” che esse rappresentano.
Un farsi carico che si manifesta molto semplicemente – di quella semplicità evangelica che noi costantemente cerchiamo di complicare – nel servizio quotidiano, nel cingersi la veste da lavoro, nel rimboccarsi le maniche, nel procurarsi il cibo e nel trasformarlo in “regalo”, in dono da re per chi noi consideriamo presenza di Cristo in mezzo a noi.
Sì, perché Cristo è in mezzo a noi ogni giorno come colui che serve e il Vangelo odierno ci ricorda che sarà in mezzo a noi proprio così, come servitore alla tavola della comunità, anche al suo ritorno. Un Signore che Pacomio ha saputo riconoscere perché lo ha contemplato rivestito degli abiti del servitore, sotto le sembianze di semplici cristiani che si erano fatti carico di povere reclute nella sofferenza. Il nostro Signore, il Signore della gloria è il servo che lava i piedi, nell’ultima cena come nell’ultimo giorno.
Allora anche noi sappiamo qual è il nostro criterio di discernimento e il nostro cammino di discepoli che si vogliono vigilanti, sappiamo a cosa dedicarci ora e fino all’ora della nostra morte, come abbiamo professato davanti a Dio, alla chiesa e ai fratelli e alle sorelle: al servizio della carità nel celibato e nella vita comune.

giovedì 3 maggio 2018

Molte culture, un unico fine: la vita


Sul sito del Consiglio Ecumenico delle Chiese è apparso oggi il mio commento al primo capitolo del profeta Giona, nel quadro degli studi biblici pensati come accompagnamento del Pellegrinaggio di Giustizia e Pace che le Chiese di tutto il mondo stanno compiendo, in comunione con gli uomini e le donne di buona volontà.

Riporto qui il testo italiano. 

Giona 1, 1-16

Molte culture, un unico fine: la vita


Introduzione
L’intera vicenda del profeta Giona ci parla di un tortuoso cammino di appello alla conversione e della infinita misericordia di Dio sia nei confronti del profeta riluttante che verso “la grande città nella quale sono più di centoventimila persone … e una grande quantità di animali” (Giona 4,11).
Il primo capitolo ci mostra la responsabilità che ogni credente ha di recarsi là dove il Signore vuole che risuoni la sua parola. Quando questo cammino ci sembra troppo duro e faticoso per noi, sono gli eventi della vita e i nostri compagni di strada – che a volte non condividono nemmeno la nostra stessa fede – a farci ritrovare la solidarietà umana e il retto sentiero.
Alzati! Va’ a Ninive … Giona si mise in cammino per andare a Tarsis”. Non è proprio un pellegrinaggio quello intrapreso da Giona: fugge in direzione opposta alla meta indicatagli dal Signore, fugge pensando alla sua “pace”, cercando di evitare contestazioni e ostilità, rinuncia a portare in quella “grande città” l’appello alla conversione che avrebbe riportato giustizia, mettendo fine alla malvagità degli abitanti. Ma ogni cammino di conversione che intraprendiamo può trasformarsi, per noi e per quanti incontriamo, in pellegrinaggio di giustizia e di pace.

Riflessione
Il Signore chiede al suo profeta – a colui cioè che non deve predire il futuro ma proferire parole a nome di Dio – di andare incontro al nemico di Israele, la grande potenza di Assiria per invitarla a cessare di commettere ingiustizie e di propagare la guerra. Ninive, la capitale del regno di Assur è sulle rive dell’Eufrate, a oriente di Israele; Giona fugge verso Tarsis all’estremità occidentale del Mediterraneo. Ma nel testo biblico la sua non è una semplice fuga, non è un imboccare un cammino opposto a quello indicatogli dal Signore: la ripetizione del verbo ebraico jarad (“scendere”) descrive una discesa progressiva verso gli inferi. Giona “scende” a Giaffa, poi “scende” verso Tarsis, e ancora “scende verso il luogo più riposto della nave”; successivamente, gettao in mare e inghiottito dal grosso pesce, “scenderà” nel profondo degli abissi. Così, inviato a parlare di conversione alla pace e alla giustizia, Giona ammutolisce, si rinchiude in un silenzio tombale, scende verso le oscurità e lì si addormenta, sperando forse di risvegliarsi solo una volta arrivato a Tarsis, lontano dal Signore.
Ma la voce del Signore è potente e trova chi la ascolta: non solo il vento e il mare – come si vedrà nel seguito del racconto, e come accadrà anche con Gesù (cf. Mc 4,41) – ma perfino i marinai pagani. Costoro sono uomini di fedi e culture diverse – “ciascuno di loro invoca il proprio Dio” (Giona 1,5) – accomunati dal trovarsi di fronte a un pericolo che minaccia tutti e dal volerlo fronteggiare senza che nessuno si perda. Chiedono che Giona si unisca a questa preghiera che ha tante divinità come destinatari, ma una sola intenzione: la salvezza di tutti. Rispettosi della legge del mare che chiede di non abbandonare nessuno nel pericolo, quei marinai pagani non si rassegnano nemmeno quando la “sorte cadde su Giona” (Giona 1,7) come responsabile della tempesta. Lo fanno uscire dal silenzio, lo interrogano, cercano di capire, gli chiedono di conoscere la sua diversità di etnia, provenienza, professione. Sono loro, marinai di altre fedi, a strappare a Giona una confessione di fede in “YHWH, Dio del cielo che ha creato il mare e la terra”. Lui, profeta di quel Dio, non lo avrebbe nominato, se ne sarebbe rimasto in silenzio senza la pressante richiesta dei marinai. E paradossalmente saranno proprio i marinai pagani, e non Giona, a “implorare il Signore”, il Dio di Israele: dopo aver tentato invano di salvare con le proprie forze la nave e tutte le persone a bordo, i marinai si rassegnano a gettare in mare Giona, ma prima invocano il Signore perché non imputi loro sangue innocente. E, ottenuta la bonaccia, sono presi dal “timore di YHWH” e giungono a offrirgli sacrifici e voti. Quello che non ha fatto il profeta Giona – pregare il Signore Dio di Israele – lo hanno fatto i marinai; quello che doveva essere il frutto della predicazione del profeta – la conversione al Dio vivo e vero – nasce dalla rettitudine di questi uomini che riconoscono l’azione del Signore negli eventi della storia.
***
L’immagine dei pericoli di un viaggio in mare e della condivisione di speranze e timori da parte di marinai e passeggeri di provenienze, culture e fedi diverse mi richiama alla mente una delle prime esperienze ecumeniche di un allora giovane presbitero ortodosso, che sarebbe diventato un protagonista del movimento ecumenico del XX secolo: Emilianos Timiadis. Giovane cappellano dei marittimi in Belgio agli inizi degli anni9 ‘50, il futuro Metropolita Emilianos si rende conto che i problemi con cui ogni cappellano doveva confrontarsi erano gli stessi, a prescindere dall’appartenza all’una o all’altra confessione cristiana. In particolare, marinai ortodossi, cattolci e protestanti si sarebbero trovati insieme per lunghi periodi di navigazione, senza possibilità di partecipare alla vita liturgica delle rispettive chiese. Era possibile avere per loro una catechesi e una cura pastorale comune almeno durante le loro soste a terra? P. Emilianos prende contatto con i cappellani cattolici dell’associazione Apostolatus maris e a loro si aggiungono ben presto alcuni pastori anglicani e riformati. L’accoglienza e l’abilità culinaria della madre di p. Emilianos fa sì che per parecchi anni ad Antwerpen una quarantina di pastori e preti di diverse chiese si ritrovano due volte al mese attorno a una tavola ricca di piatti mediterranei per condividere speranze e preoccupazioni del loro ministero pastorale.
La sollecitudine di un pastore per le persone affidate alle sue cure e l’audacia di un pungo di uomini di chiesa preoccupati che la furia del mare non si impossessi anche dell’anima e dello spirito di poveri marinai in balia delle onde diventano così profezia di una ritrovata unità dei cristiani: la nave della chiesa può affrontare i marosi nella comune fiducia che il Signore vuole che tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Interrogativi
  • Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare” (Seneca): come sfruttare anche il vento contrario affinché ci conduca tutti insieme al porto desiderato della pace nella giustizia?
  • Come far sì che le nostre diverse culture, etnie, fedi e appartenenze ecclesiali siano motivo di comune ricerca del bene per tutti?
Azioni
  • Di fronte al fenomeno migratorio, applicare anche sulla terra la legge del mare, che è anche legge della montagna perché legge di umanità: chi è in pericolo di vita va salvato, sempre e comunque.
  • Coinvolgere anche gli animali e il nostro rapporto con loro nel cammino di conversione dei nostri stili di vita (cf. Giona 3,7-9).