domenica 31 dicembre 2017

Traghettatore di senso

A inizio dicembre sono stato contattato da Dori Agrosi - anima del sito La Nota del Traduttore dedicato alla traduzione letteraria - affinché raccontassi la mia esperienza come traduttore del libro di Alexis Jenni Son visage et le tien, divenuto Il volto di tutti i volti nella versione italiana presso le Edizioni Qiqajon. Una richiesta inattesa e graditissima. Oggi, al volgere del nuovo anno, la mia "nota del traduttore" è stata pubblicata sul sito. Ne riporto qui il contenuto, assieme a un vivo ringraziamento a Dori e un caloroso augurio per un anno di pace a tutti.


Nella casa editrice di cui faccio parte fin dalla sua fondazione nel 1983 non svolgo più la funzione del traduttore con la frequenza dei primi anni: ormai mi viene affidato solo qualche testo, non troppo lungo, di autori francofoni con caratteristiche letterarie oltre che spirituali. Questo mi ha condotto all'inimmaginabile opportunità di tradurre uno scrittore vincitore del Prix Goncourt. Alexis Jenni vince a sorpresa il Premio letterario francese più prestigioso nel 2011 con il suo primo romanzo: L’art française de la guerre. Ovviamente la traduzione italiana esce da Mondadori, non certo da Qiqajon. Però lo scorso anno avviene un imprevisto: Jenni viene a Bose per preparare un libro intervista con fr. Enzo Bianchi sulla Comunità monastica di Bose da lui fondata, di cui faccio parte e di cui le Edizioni Qiqajon sono espressione. In quell’occasione ci fa dono del suo libro Son Visage et le tien, appena uscito per Albin Michel: un testo che ripercorre un cammino di riscoperta della fede cristiana attraverso i sensi. Esaminarlo e decidere di tradurlo è questione di poche ore. L’amicizia con l’autore, nata nell’occasione, vince le resistenze dell’editore originale a cedere i diritti a una piccola casa editrice e, al contempo, fornisce preziosi strumenti al traduttore.
Decido di non intraprendere la lettura del romanzo L’arte francese della guerra, né nell’originale francese, né nell’ottima traduzione italiana di Leopoldo Carra: non certo per supponenza, ma perché l’autore mi aveva confidato di aver voluto cambiare registro e stile per il suo nuovo libro per rivolgersi a un pubblico sensibilmente diverso. Così inizio il lavoro in modo meno condizionato ma, al tempo stesso, senza rete di protezione.
Leggo con calma l’intero testo e subito percepisco una difficoltà nei titoli dei capitoli: sono tutti verbi all’infinito – tranne l’ultimo, che darà il titolo all’originale francese: Il suo volto e il tuo – ma due di loro, posti in successione, costituiscono uno scoglio. Entendre abbraccia sì lo spazio della comprensione, ma il suo primo significato rimanda al “sentire”, al senso dell’udito. Bene, allora l’italiano “sentire” è il più appropriato. Peccato che il capitolo successivo si intitoli Sentir e giochi sull’ambivalenza di “udire” e di “provare un sentimento”. Quindi in diversi passaggi del capitolo il sinonimo “udire” è inutilizzabile per rendere la duplice valenza e, analogamente, “sentire” nel capitolo precedente non ricopre adeguatamente la dimensione della “comprensione”. Così, dopo diversi tentativi di uniformità nel tradurre le ricorrenze all’interno dei due capitoli, opto per il calco più immediato: entendre sarà (quasi sempre) “intendere” e sentir sarà “sentire”. Ovvio e banale, si direbbe. Io ci ho messo diversi giorni per arrendermi a questa evidenza.
Del resto è questa la mia opzione preferita per avvicinarmi all’impossibile risultato di una traduzione “bella e fedele” dal francese: incollarmi al testo, al suo scorrere parlato, alla prima reazione che penso susciti in un lettore francofono e cercare di riprodurre lo stesso risultato per un madrelingua italiano. Solo quando colgo già nell’originale l’intenzione di giocare sui doppi sensi o sui significati meno immediati di un termine o una locuzione mi discosto con convinzione dai termini equivalenti più piani, naturali.
Anche grazie a questo approccio il lavoro procede senza particolari intoppi, se non quelli legati a descrizioni di luoghi che non ho mai visitato o di pitture barocche che non mi hanno mai affascinato. Eppure un tarlo mi perseguita: il titolo originale non mi piace! È il titolo dell’ultimo capitolo e per quello va bene, ma per l’insieme dell’opera? Così all’ultima rilettura dell’intero testo ritrovo, proprio nel capitolo conclusivo, l’espressione che cercavo: “son visage”, quello di Cristo, è in un certo senso “il volto di tutti i volti”. Già, ma chi sono io per decidere di cambiare titolo al libro di un Prix Goncourt? Timoroso, mando una mail ad Alexis. Il giorno successivo mi arriva la risposta: “ce que tu proposes me paraît très bien, tout à fait dans l’esprit du livre, et plus harmonieux qu’une traduction littérale de Son visage et le tien. Donc c’est parfait”.

Il mio lavoro di traghettatore di senso è concluso.

lunedì 11 dicembre 2017

Nulla è estraneo

In un'antologia a cura di Enzo Bianchi edita da Einaudi – Il libro delle preghiere, purtroppo ora esaurita e disponibile solo in ebook – vi è una preghiera di un monaco russo anonimo che mi è subito parsa corrispondere al mio modo di pregare.
L’avevo allora usata come canovaccio per elaborarne una mia, che ormai da qualche anno abita i miei primi momenti mattutini.

Padre, è l’alba e un nuovo giorno mi avvicina al tuo Giorno.
Fa’ che io vada incontro nella pace
a tutto ciò che mi porterà questo giorno.
Fa’ che io mi abbandoni nella semplicità alla tua santa volontà.
Qualunque notizia io riceva oggi,
insegnami ad accettarla nella quiete e nella fede salda
che nulla può accadere di estraneo al rapporto con te.
In tutti gli eventi inattesi,
insegnami a fare memoria con gratitudine
della tua presenza in ogni cosa.
Donami in ogni momento la tua luce per discernere
e la tua forza per agire.
In ogni mia azione e parola la tua misericordia orienti i miei pensieri
e i miei sentimenti.
Insegnami ad agire con sapienza e intelligenza
verso i miei fratelli e le mie sorelle
e verso tutti e ciascuno, senza mortificare o contristare nessuno.
Insegnami a pregare, ad ascoltare, a credere,
a perseverare, a perdonare, a sperare, ad amare.


Nella foto, Padre Sofronio, discepolo di san Silvano del Monte Athos, che ho avuto il grande dono di incontrare nel suo Monastero di San Giovanni Battista a Maldon (Essex, UK), nel novembre 1979.


sabato 11 novembre 2017

Fuoco e ceneri

Tradizione è conservare il fuoco, non adorare le ceneri”.
Penso sovente a questa frase di Gustav Mahler quando sento parlare, a proposito e a sproposito, della “messa di sempre” o della “immutabile dottrina cattolica”, quando sento ripetere che “si è sempre fatto così”. In realtà il “sempre” si estende al massimo per quattro o cinque secoli, rispetto ai due millenni che ci separano dalla nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Se al “sempre” si aggiunge anche l’“ovunque”, ci si riferisce solo al mondo “occidentale” e alle sue estensioni al di qua e al di là degli oceani.

Non so in che contesto si collocasse l’aforismo di Mahler, così come ignoro a chi si riferisse Charles Péguy quando, nella sua Note conjointe sur Monsieur Descartes, così scriveva: Non basta abbassare ciò che è temporale per elevarsi nella categoria dell’eterno. Non basta abbassare la natura per levarsi nella categoria della grazia. Non basta abbassare il mondo per salire nella categoria di Dio. […] Siccome non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura, credono di essere della grazia. Siccome non hanno il coraggio del temporale, credono di aver penetrato l’eterno. Siccome non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Siccome non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Siccome non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Siccome non amano nessuno, credono di amare Dio. Ma Gesù Cristo stesso è stato dell’uomo”.


Non conosco i primi destinatari di questi pensieri, conosco però, e credo di non essere l’unico, a chi oggi si possono applicare queste parole di sapienza evangelica.

venerdì 3 novembre 2017

4 novembre La pace come brezza leggera

99 anni anni fa finiva per l’Italia la I guerra mondiale.
Quando ero piccolo questa data era ricordata come “Anniversario della vittoria”. Ma “dov’è la vittoria”? Come si può chiamare “vittoria” una “inutile strage”? Visitando anche ieri il cimitero di Magnano ho ricontato i 46 cippi di giovani caduti nel conflitto del “15-18”. Quarantasei morti su una popolazione complessiva di 1.841 abitanti (censimento del 1911)! E percentuali simili si ritrovano in tanti, troppi Comuni italiani.




Personalmente ho anche conosciuto diversi “Cavalieri di Vittorio Veneto” e da nessuno di loro ho mai ascoltato parole enfatiche sulla “vittoria”: sempre e solo ricordi di sofferenze, di compagni morti e feriti, di gesti eroici compiuti non per uccidere un maggior numero di nemici bensì per cercare di salvare commilitoni in difficoltà. Per loro l’anniversario celebrava la “fine della guerra”, non la “vittoria”.

Poi, man mano che l’Europa veniva sanando le laceranti ferite dei due conflitti mondiali, il 4 novembre in Italia era celebrato come “Festa delle Forze armate”. Ma come dimenticare che la I guerra mondiale è stata anche l’ultima in cui il numero dei morti tra i combattenti è risultato maggiore quello dei civili? In seguito le “forze armate” hanno sempre subìto meno perdite dei “deboli disarmati”.
Al cimitero militare americano di Nettuno, papa Francesco ha recentemente pronunciato parole dure contro la guerra, “strage inutile”, “distruzione di noi stessi”. "Quando tante volte nella storia gli uomini pensano di fare una guerra sono convinti di portare un mondo nuovo, di fare una primavera, e, invece, finisce in un inverno, brutto, crudele, il regno del terrore”.
Sì, la guerra è il crudele inverno dell’umanità.

                                       


A tutti i caduti di tutte le guerre (mai giuste, sempre inutili): quelle finite e quelle in corso, quelle mondiali e quelle “a pezzetti”, “a puntate”, “su commissione”… A chi è caduto con onore e a chi è stato fucilato con disonore, agli “uomini contro” e alle donne rimaste sole, alle persone calcolate come “effetti collaterali” e ai bambini-soldato dedico queste riflessioni sulla pace, tratte da un mio contributo a un volume collettivo di prossima uscita in inglese sul Pellegrinaggio di Giustizia e Pace promosso dal Consiglio ecumenico delle Chiese.


Rispetto per la giustizia, per la vita, per la coscienza di ogni essere umano, per i poveri, offerta del perdono: sono questi gli “strumenti” – non le “armi”: quando si parla di pace è meglio bandire la guerra anche dal linguaggio – quotidiani per aprire giorno dopo giorno una via alla pace. È l’atteggiamento cui ci invita la Scrittura: “Ricerca la pace e perseguila” (Sal 34,15) è l’esortazione che il salmista rivolge ancora oggi ai credenti e ai discepoli di quel Gesù Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14). Sì, per i credenti nel Dio di Abramo e di Gesù di Nazaret, il tema della pace non appartiene primariamente all’ordine etico, morale o sociale – e tanto meno all’ambito strategico o tattico – ma è essenzialmente di ordine rivelativo, sta nello spazio della fede, ha valenza cristologica: narra in quale Dio noi crediamo, manifesta di quale Signore siamo discepoli. E questo non soltanto perché la pace è legata alla venuta del Messia, ma perché in riferimento a Cristo Signore essa riceve la pienezza del suo significato e trova un criterio di giudizio.
In un’ottica di fede, infatti, la pace è nel contempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani, di ogni cristiano: la chiesa primitiva, la chiesa dei martiri, la chiesa povera per eccellenza e dei poveri, ha avuto, a livello di popolo di Dio e non solo di magistero, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti delle guerre e dei conflitti armati, pagando sovente a caro prezzo il non coinvolgimento nelle opere del potere e della forza, nelle opere del principe di questo mondo. E similmente avviene ancora oggi là dove la chiesa è minoritaria, esigua presenza che rivive da un lato l’ostilità dei nemici della vita e dall’altro la solidarietà dei poveri e degli operatori di pace. Si pensi, per esempio, alla chiesa d’Algeria e ai suoi martiri, come i sette monaci trappisti che, prima di essere rapiti e uccisi da chi pretendeva di “agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam”, così pregavano quotidianamente: “Signore, disarmali! Signore, disarmaci!”. Sì, ancora oggi verrebbe da ripetere con il salmista: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra” (Sal 120,6-7).
La pace allora va invocata dal Signore come dono, ma va anche costruita giorno dopo giorno nella storia umana: è opera lunga, faticosa, quotidiana la pace; è travaglio che inizia nei nostri cuori, che si dilata a partire dal nostro prossimo fino ad abbracciare il nemico; è crescita silenziosa che, a differenza della guerra, non “scoppia”, non irrompe, non si impone ma, come Dio, è brezza leggera che penetra là dove ciascuno di noi la fa entrare.

domenica 15 ottobre 2017

LIBRI E SAPONETTE


A costo di apparire banale, ritengo che non si possa trattare commercialmente il libro come una saponetta, non per elitario snobismo, ma perché mi risulta che:

  1. i consumatori di saponette in Italia sono ben più del 43% della popolazione che legge (non che compera) almeno un libro all’anno (una saponetta all’anno è sufficiente?).
  2. Chi non utilizza quotidianamente un libro purtroppo non è immediatamente identificabile dal proprio odore, come chi non usa quotidianamente la saponetta.
  3. Un singolo libro acquistato può fortunatamente avere anche più di un lettore (cosa più che disdicevole quando accade per la saponetta, o lo spazzolino da denti).
  4. Un libro – se confezionato dignitosamente e non messo sotto il rubinetto – dura molto più a lungo di una saponetta e raramente viene comperato in più esemplari identici.
  5. Dal canto suo la saponetta non può essere fotocopiata, anche se, per contro, va riconosciuto che regalare una saponetta a un amico può essere meno fine che regalargli un libro.


venerdì 6 ottobre 2017

UN DIGIUNO PER DISCERNERE UN DIRITTO

Non sono un insegnante, ogni giorno a contatto con bambini e ragazzi di ogni etnia da rendere partecipi dell’essenza di una cultura e di una convivenza civile. Non ho figli che ogni giorno studiano, giocano, litigano, vivono con coetanei di cui ignorano il passaporto. Non sono un politico, chiamato a tradurre in leggi e norme i principi e i valori universali, applicandoli a una realtà particolare.
Sono un cristiano al quale il suo Signore e Maestro ha detto: “Quando digiuni, non diventare malinconico come gli ipocriti, che assumono un'aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano… Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto”.
Sono un monaco e, come tale, cerco di fermarmi alla soglia dell’azione politica, pur sapendo che molti dei gesti che compio ogni giorno hanno una valenza politica in senso forte.
Il digiuno, nella vita cristiana e monastica che cerco di vivere quotidianamente, non è una forma di ascesi meritoria, tanto meno è uno strumento politico: è un tempo e una condizione che favorisce la preghiera e il discernimento. Privarmi per qualche ora del cibo mi aiuta a discernere ciò che mi nutre e mi sostiene, ciò che è essenziale e ciò che è secondario nella vita, a vedere me stesso e gli altri in una luce differente, una luce e uno sguardo che vorrei fossero quelli di Gesù Cristo.
Per queste ragioni, come cristiano e fratello universale, come cittadino del mondo, di cultura e passaporto italiani, digiunerò dal tramonto di giovedì 12 ottobre all’alba di sabato 14 ottobre, in solidarietà con lo sciopero della fame “a staffetta” indetto per sollecitare l’approvazione da parte del Senato della Repubblica della legge cosiddetta sullo “ius soli temperato” o “ius culturae”, già approvata dalla Camera dei Deputati e tesa a riconoscere a bambini, ragazzi e giovani minori che vivono in Italia quello che già sono: italiani a tutti gli effetti.
È un piccolo gesto – risibile per alcuni, criticabile per altri – di cui non sono nemmeno in grado di misurare l’efficacia, né mi interessa esserlo. Ma desidero porre un segno tangibile, vissuto con le fibre del mio corpo, di idee e convincimenti che abitano il mio cuore e che condivido con fratelli e sorelle in umanità. Un gesto personalissimo, compiuto però in solidarietà con altri, a testimoniare una comune ricerca di ciò che ritengo giusto per tutti.

Con questi sentimenti, per dirla molto più semplicemente, aderisco allo sciopero della fame per lo ius soli.


mercoledì 27 settembre 2017

Dag Hammarskjöld

Il meglio e l’ottimo a cui si possa giungere in questa vita
è che tu taccia e lasci agire e parlare Dio.
Una volta mi afferrasti, o Lanciatore.
Ora nella tua tempesta.
Ora verso la tua meta”.

Così, citando Meister Eckhart, annotava nelle sue Tracce di cammino Dag Hammarskjöld sessant’anni fa, il 26 settembre 1957, giorno della sua rielezione per un secondo mandato come Segretario generale dell’ONU.
Quattro anni dopo, sempre in settembre, nella notte tra il 17 e il 18 l’aereo sul quale viaggiava si schiantava al suolo nei pressi dell’aeroporto di Ndola, al confine tra il Katanga e la Rhodesia del Nord, dove Hammarskjöld avrebbe incontrato i secessionisti per tentare un’estrema mediazione nella crisi congolese.

Il 10 agosto scorso il giudice tanzaniano Mohamed Chande Othman – incaricato dall’ONU di verificare se nuove fonti o documenti avrebbero potuto consentire un riesame delle indagini volte a stabilire le cause del disastro – ha consegnato la sua relazione all’attuale Segretario generale António Guterres.
Il supplemento di indagine preliminare era stato deciso nel 2015, quando un’apposita commissione aveva valutato opportuno– anche sulla base dell’accurato lavoro di ricerca compiuto da Susan Williams, pubblicato in un libro dal significativo titolo Who killed Hammarskjöld? – affidare questo compito a una “eminente personalità”.
Le conclusioni sono quelle che tutti coloro che hanno seguito in questi decenni la vicenda dell’opera e della morte di Dag Hammarskjöld si attendevano: nei dossier dei paesi allora coinvolti nella turbolenta questione congolese – in particolare Gran Bretagna, Belgio e U.S.A. – si possono celare elementi tali da supportare l’ipotesi che l’aereo di Hammarskjöld sia precipitato in seguito all’intervento ostile di un altro aereo.
A me preme ancora una volta sottolineare la dimensione umana e cristiana di questo cittadino del mondo a servizio della polis*: consapevole che il trovarsi nella tempesta non era estraneo al suo rapporto con Dio, ma anzi che fosse il modo per incamminarsi risolutamente verso la meta di Dio.
The best way out is always through” – aveva scritto il poeta Robert Frost nel 1916 – e questo cercare la migliore via d’uscita non nell’evasione ma nell’immersione nelle difficoltà, nel loro attraversamento è stata una caratteristica dell’operare di Hammarskjöld durante tutta la sua vita.

Nell’ultima annotazione del Diario, il 24 agosto 1961, venti giorni prima di morire, il Segretario generale dell’ONU sembra intravvedere la sua “via d’uscita”: “Comincio a riconoscere la mappa e i punti cardinali”.

* E' quanto ho già cercato di fare nella Prefazione all'ultima edizione di Tracce di cammino e in occasione del Seminario dell'Associazione Dag Hammarskjöld Today, tenutosi a Roma il 16 Novembre 2015:


sabato 23 settembre 2017

LO IUS DELLA PAIDEIA


È basco chi parla basco!”. Così anni fa il basco (di nazionalità francese) Gabriel Mouesca rispose alla mia domanda su chi è basco. Una risposta di semplicità e radicalità disarmanti, che mi è tornata alla mente leggendo oggi due articoli sullo ius soli temperato, o ius culturae che approvar si voglia.
Nel primo, intitolato “L’Italia salvi il proprio onore”, dopo aver evocato “l’antica tradizione romana”, Ginevra Bompiani scrive su il manifesto: “Appartiene alla nostra cultura riconoscersi nel diverso. Non farlo, sarebbe come per un editore rifiutare di tradurre testi stranieri”.
Nella rubrica che Umberto Galimberti tiene settimanalmente su D de la Repubblica, risponde a un lettore citando Isocrate (IV sec. a.C.): “Atene ha fatto sì che il nome di elleni designi non più una stirpe (ghénos), ma un modo di pensare (diánoia). Per cui siano chiamati elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia”.
Tre approcci convergenti nel definire l’identità di un popolo al di là di confini orografici e statali. Una lingua, infatti – e in particolar modo quella basca, estranea al ceppo indo-europeo e quindi assai difficile da apprendere da parte di chi non la sente parlare e la frequenta quotidianamente – è uno degli elementi culturali di base, che ciascuno di noi assimila da subito e indipendentemente dallo status giuridico della sua presenza in un determinato territorio. Come un basco è basco indipendentemente dal suo essere cittadino francese o spagnolo, nativo o immigrato, così le popolazioni delle varie regioni e stati che hanno formato l’Italia erano percepite e si percepivano “italiane” ben prima dell’unità d’Italia – perseguita anche per questo motivo – e prima di essere capaci di esprimersi correntemente in italiano e non in dialetto. È quindi l’educazione, la paideia, la cultura che, formandosi e arricchendosi in un determinato territorio, definisce progressivamente un’identità, in costante divenire.
E all’identità culturale italiana – anche nella sua estensione etica e di costumi – hanno da sempre contribuito e continuano a contribuire scrittori, filosofi e pensatori di ogni lingua, stirpe, etnia. Grazie all’antica e meravigliosa arte della traduzione – quella che rende alcune persone capaci di “dire quasi la stessa cosa” in un’altra lingua, secondo la felice espressione di Umberto Eco – sono oggi patrimonio degli italiani anche autori che “italiani” non sono mai stati: così, allo stesso titolo ritroviamo oggi nel nostro dna culturale Omero e Virgilio, Agostino e Gregorio Magno, Dante e Shakespeare, Erasmo e Machiavelli, Copernico e Galileo, Manzoni e Proust, Kant e Croce, Calvino ed Hemingway…
Possiamo allora dire, quasi venticinque secoli dopo Isocrate, che “il nome di italiano” designi una paideia comune, un modo di articolare e di comunicare il pensiero e le emozioni che condividiamo, al di là delle opinioni personali, con quanti intrecciano la loro esistenza quotidiana con la nostra e quella dei nostri figli? E possiamo fare in modo che questa “educazione” comune, questa cultura condivisa sia riconosciuta come fondante uno ius, un diritto che spetta a chiunque abbia avuto dalle vicende della vita il dono di poterla condividere?

lunedì 11 settembre 2017

GUERRA GIUSTA, PACEM IN TERRIS E SANTI PATRONI

             Sto ancora cercando di capacitarmi di come sia stato possibile che “Con decreto del 17 giugno 2017, la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, in virtù delle facoltà concesse da papa Francesco, ha dichiarato san Giovanni XXIII ‘Patrono presso Dio dell’Esercito italiano’”.
       Avete letto bene, l’autore della Pacem in terris che dichiara “alienum a ratione, [estraneo alla ragione, folle] che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”, il papa della Chiesa universale viene proclamato “patrono” di un esercito nazionale!
       E questa decisione sconvolgente è presa da un organismo della Chiesa cattolica, apostolica romana “in virtù delle facoltà concesse da papa Francesco”, il medesimo pontefice di cui leggiamo queste parole in un volume-intervista appena uscito in Francia: “Ancora oggi dobbiamo pensare con attenzione al concetto di ‘guerra giusta’. Abbiamo imparato in filosofia politica che per difendersi si può fare la guerra e considerarla giusta. Ma si può parlare di ‘guerra giusta’? O di ‘guerra di difesa’? In realtà la sola cosa giusta è la pace”. [L’intervistatore gli chiede:] “Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?”. [E il papa risponde:] “Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace”.
            Ho cercato di capire le motivazioni evangeliche di una Bolla vaticana che “l’Ordinario militare per l’Italia, arcivescovo Santo Marcianò, consegnerà al Capo di Stato maggiore, generale Danilo Errico” e sono perciò andato a leggermi su L’Osservatore romano l’articolo che Ezio Bolis dedica alla notizia. Sono uscito frastornato dalla lettura: a parte la breve frase che annovera “il costante impegno [di papa Giovanni] in favore della pace” tra le motivazioni del decreto, tutto il resto dell’articolo fa riferimento a pensieri, parole e azioni non del “Vescovo di Roma che presiede nella carità”, bensì di don Angelo Roncalli durante gli anni della I guerra mondiale. Da essi emergono l’umanità del giovane prete bergamasco, la sua vicinanza alle immani sofferenze di tanti giovani, il suo ministero di compassione e di consolazione verso quei “cario giovani soldati”. Naturalmente negli scritti di quegli anni non si potrebbe pretendere di trovare frasi di condanna di una “inutile strage” da parte di un presbitero che ha come ministero l’assistenza spirituale e umana e persone che egli giustamente – e a differenza di molti suoi superiori – si rifiuta di considerare come “carne da macello”.
            Ma questo come può giustificare il “patronato” di un Pontefice proclamato santo su un esercito particolare, destinato per sua funzione intrinseca a combattere contro altri eserciti? È vero che da alcuni decenni si cerca di far passare l’idea che “il compito precipuo dell’esercito in uno stato democratico è difendere il bene prezioso della pace imponendo la forza della legge”, ma questa missione idilliaca mostra almeno due contraddizioni: da un lato “imporre la forza della legge” spetta alla polizia, non all’esercito, così come alla magistratura spetta inculcarne il rispetto; d’altro lato si tace sui mezzi con cui si pretende di “difendere il bene prezioso della pace”: armi da guerra sempre più sofisticate e distruttive, sempre più destinate a colpire civili e non militari, sempre più generatrici di “effetti collaterali” devastanti.
      Certo, molte popolazioni in Italia e all’estero provate da disastri naturali hanno conosciuto e conoscono il preziosissimo contributo dell’esercito nell’alleviare le loro sofferenze, ma questo è offerto da uomini disarmati, operanti sovente a mani nude e mai grazie a portaerei, caccia bombardieri, missili e cannoni... Un’occhiata al bilancio delle nostre Forze armate e ai suoi capitoli di spesa sarebbe molto indicativo per comprendere le priorità del nostro esercito, come del resto di tutti gli eserciti, anche di quelli che non hanno come patrono san Giovanni XXIII.
          Credo che san Giovanni XXIII – papa Giovanni, come ama ancora chiamarlo la mia generazione – sarebbe stato molto più adatto a essere proclamato patrono degli operatori di pace di tutte le nazioni. Comunque, per volontà di Dio, questi ultimi, uomini e donne oscuri testimoni della speranza hanno non tanto per “patrono”, ma per Signore e Maestro Gesù stesso che ha proclamato: “Beati gli operatori di pace!”. Con buona “pace” dell’esercito italiano.




domenica 3 settembre 2017

MONACI E CINEMA

             Nel post precedente ho citato la pellicola Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois – Grand Prix du Jury al Festival di Cannes del 2010 – che narra la vicenda dei monaci di Tibhirine. La sua uscita nelle sale francesi e poi di tutta Europa incontrò un successo di pubblico che molti accostarono a quello conosciuto cinque anni prima dal documentario Die grosse Stille (Il grande silenzio) del regista tedesco Philip Gröning. Successo che, in entrambi i casi, fu particolarmente significativo se calcolato non sul numero totale degli spettatori, ma sul rapporto tra numero di pellicole distribuite (e quindi di sale dove vennero proiettati) e spettatori paganti.
         Entrambi presentano uno squarcio di vita monastica, l’esistenza quotidiana di un esiguo gruppo di monaci che vivono in una più o meno radicale clausura rispetto al mondo circostante. Gröning lo fa con un accuratissimo lavoro documentario: ottenuto il permesso – diversi anni dopo averlo richiesto – di filmare la vita all’interno della Grande Chartreuse sopra Grenoble, ci presenta soprattutto un aspetto della vita dei certosini: il silenzio che, nel documentario, come del resto nell’esistenza quotidiana…, non è colmato nemmeno da una colonna sonora. Il regista ha documentato il silenzio cghe ha saputo e potuto “ascoltare”, cogliere, penetrare.



      Beauvois, invece, ha ricostruito un evento storico con estrema accuratezza e immedesimazione. Come ambientazione ha scelto un monastero in Marocco, abbandonato da anni; ha preteso che ogni attore trascorresse un tempo in un monastero trappista e incontrasse i parenti del monaco che avrebbe interpretato sullo schermo; ha voluto che nelle scene delle liturgie in cappella fossero gli stessi attori a cantare salmi e inni… Ma il film resta una fiction: nessun accenno esplicito è fatto all’Algeria (e i militari indossano le uniformi dell’esercito marocchino), alcuni episodi vengono rielaborati, rinunciando perfino a particolari storici di sicuro effetto, i dialoghi sono sovente lasciati all’improvvisazione degli attori, le condizioni atmosferiche del set offrono soluzioni non programmate (come l’improvvisa nevicata che fa riscrivere le scene del rapimento e della marcia forzata finale.





              Eppure, da monaco, devo confessare che ho trovato il film su Tibhirine più “reale” del documentario della Certosa. L’ottimo lavoro di Gröning, infatti, mi è parso più una parabola sul silenzio e le sue valenze che non uno spaccato di vita monastica. In questo senso il titolo mi sembra estremamente calzante: si racconta il silenzio, la sua dimensione avvolgente, la sua grandezza misteriosa e non – o non in primo piano – la vita dei monaci che in quel silenzio conducono la loro esistenza. Beauvois, invece, ha messo sulla scena una quotidianità in cui qualunque monaco – ma anche molti frequentatori di monasteri – può rispecchiarsi. Una quotidianità più forte e più eloquente della stessa eccezionalità della vicenda dei monaci-martiri di Tibhirine: quella quotidianità che sola spiega come questi uomini normalissimi e diversissimi tra loro abbiamo potuto insieme maturare con grande naturalezza una decisione che tutto è stata tranne che ordinaria.



giovedì 31 agosto 2017

TITOLI E TRADUZIONI/3 Uomini di Dio

Uomini di Dio

La vicenda dei 7 monaci di Tibhirine, rapiti nel marzo 1996 dal loro monastero e di cui vennero ritrovate dopo oltre un mese le teste, è uno degli eventi che mi ha maggiormente segnato come uomo, come cristiano e come monaco.
Ho tradotto e curato tre edizioni successive di una raccolta di loro scritti, il cui titolo italiano – Più forti dell’odio (Piemme 1997, poi Qiqajon 2006 e 2010) – si è decisamente staccato dall’originale francese Sept vies pour Dieu et l’Algérie (Bayard/Centurion 1996) per aiutare il lettore italiano, per il quale è meno significativo evocare l’Algeria, ad andare al cuore del messaggio di quei monaci.
Proprio per questo lavoro editoriale, sono stato contattato dai distributori italiani del film – Lucky Red – ispirato a quella vicenda per approntare una scheda di presentazione e proporre un possibile titolo italiano, al posto dell’originale Des hommes et des dieux, letteralmente Uomini e dèi. La scelta, che ebbe l’approvazione del regista Xavier Beauvois, è caduta su Uomini di Dio ed è stata criticata, anche fortemente, da alcuni recensori italiani. L’accusa era di aver fatto scomparire il doppio plurale, “uomini” e dèi” che, a detta dei critici, avrebbe indicato cristiani e musulmani da un lato e Dio di Gesù Cristo e Allah dall’altro.
In realtà nemmeno in francese l’intenzione del regista era quella. Nei titoli di testa del film, infatti, scorre il versetto di un Salmo: “Io [Dio] ho detto: Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come tutti gli uomini, cadrete come tutti i potenti” (Sal 82,6). Si voleva cioè indicare la grandezza e la caducità di ogni essere uomo, che ha in sé la potenzialità di elevarsi ad altezze sublimi, ma anche la fragilità della propria mortalità.
Uomini di Dio, allora, si riferisce sia ai monaci che ai loro amici e vicini musulmani, capaci di custodire la dignità umana anche al cuore della barbarie che attraversava l’Algeria in quegli anni. E l’unico Dio cui rimanda il titolo italiano è quello verso il quale si indirizzano tutti i credenti in Lui, cristiani o musulmani che siano, ciascuno innalzando – per usare l’immagine cara a fr. Christian de Chergé, il priore di Tibhirine – uno dei due montanti di una scala tenuta insieme dai pioli della preghiera, dell’elemosina, del digiuno, dell’affidamento fiducioso al Dio misericordioso.







domenica 27 agosto 2017

TITOLI E TRADUZIONI/2

Questo post è dedicato a Nanni Svampa che ieri "si è assentato".
Ora me lo immagino sorridente mentre, accompagnandolo al cimitero, qualche amico canterà due delle sue canzoni con le quali ha magnificamente trasposto (o reinventato?) il genio di George Brassens in dialetto milanese. La prima, naturalmente è El Testament, ironico congedo dalla vita che, in realtà, è un inno alla vita stessa. L’altra è Poer Martìn, che narra la grande sensibilità di un “becamort”, un “addetto alle sepolture”, capace di molta più umanità di tanti di quelli che lo disprezzano.

Certo, Svampa va ricordato anche come l’anima de I Gufi, il complesso che in una brevissima stagione ha saputo dar voce a decenni di lotte per la pace e la giustizia. Personalmente posso dire che il loro Non maledire era diventata la canzone simbolo del collettivo di obiettori di coscienza con i quali ho prestato servizio civile quarant’anni fa.

Ma, quanto alla sua attività di traduttore e reinterprete di Brassens, Nanni Svampa ha avuto la capacità di farne apprezzare i testi come se fossero “nativi” in milanese, come per esempio la celeberrima Al mercaa de Porta Romana. Sì, quando c’è di mezzo un artista delle parole, tradurre non è tradire, ma far vivere altrove la realtà cantata.

Mi viene in mente un altro magnifico traduttore, Marcello Marchesi, che seppe ridare ai soldati romani della saga di Asterix, voce, accento e cadenze originali dei “romani de Roma”, a partire dall’elementare traduzione de “Ils sont fous ces Romains” che ridava all’esclamazione dei Galli l’acrostico latino S.P.Q.R., scherzosamente reso con “Sono Pazzi Questi Romani”.

Quanto a Svampa, e per restare ai titoli, vorrei ricordare la Chanson pour l’Auvergnat: nella Francia di Brassens i lavori più umili (come quello del “ferrivecchi”) erano svolti da persone provenienti dalla povera regione dell’Auvergne. Così l’Auvergnat nella Milano di Svampa diventa El Rotamatt, che per inciso non ha nulla a che fare con lo sprezzante “rottamatore”: il primo raccoglie e si prende cura degli scarti, il secondo li genera.




sabato 26 agosto 2017

TITOLI E TRADUZIONI/1
Occupandomi tra le altre cose delle Edizioni Qiqajon e di traduzioni (anche per altri editori), mi capita a volte di dover suggerire il titolo di qualche opera, originale o tradotta. Generalmente il titolo di un libro non è deciso dall’autore, bensì dall’editore, anche se quasi sempre si giunge a un risultato concordato. Quando un’opera viene poi tradotta in un’altra lingua, il dilemma ricomincia, perché sensibilità, giochi di parole, termini evocativi sono ovviamente diversi nelle varie lingue.

Trovo allora geniale, per esempio, la soluzione adottata da Ada Vigliani (traduttrice) e Sellerio (editore) per la versione italiana del bellissimo libro di Jenny Erpenbeck, il cui titolo originale tedesco era Gehen, ging, gegangen, cioè il paradigma del verbo “andare”. Come fare in italiano a tradurre le tre forme verbali, visto che nella nostra lingua il paradigma dei verbi è scomparso? Semplice (dopo che qualcun altro c’è arrivato!): usando il riferimento lessicale più vicino e con il quale gli italiani hanno dimestichezza. Ecco allora Voci del verbo andare, che si è aggiudicato il Premio Strega Europeo di quest’anno. Chi avrebbe potuto trovare di meglio?